L’editoriale “L’ALIBI della domenica” è dedicato questa settimana al Museo Egizio di Torino e più in generale al problema (insolubile?) del turismo di massa nei grandi musei.
Nei giorni scorsi ho letto un paio di articoli sulla imminente riapertura del Museo del Louvre di Parigi (avverrà il prossimo 6 luglio). Il presidente e direttore Jean-Luc Martinez è stato chiaro: quest’anno le perdite saranno molto rilevanti. Il numero dei visitatori calerà drasticamente, con conseguenze economiche devastanti, tali che metterebbero in pericolo la sopravvivenza stessa del museo se non fosse garantito l’intervento dello stato francese, a cui il Louvre appartiene.

In media tre quarti dei visitatori sono stranieri, cifra che sale fino all’80% durante l’estate. Quest’anno non sarà così, a causa della pandemia del Coronavirus. Tuttavia Martinez si dice fiducioso che in poco tempo il Louvre recupererà i flussi di visitatori pre Covid-19.
Da “amico del Louvre” (sono iscritto da anni all’associazione Amis du Louvre) non sono convinto che sia un auspicio condivisibile. La mia speranza è anzi che la pandemia serva come spunto di riflessione per tutti quelli che hanno a cuore i musei. Non solo direttori, curatori, organizzatori di mostre temporanee ed eventi, giornalisti del settore, ma anche il pubblico di appassionati e curiosi.
Il Louvre può vivere soltanto con 9 o 10 milioni di visitatori all’anno? Sull’altare del turismo di massa sono leciti tutti i tipi di sacrifici? Non esistono alternative più sostenibili? Non chiedo per un amico. Chiedo per me.
Ritorno al Museo Egizio
Avevo in mente queste stesse domande quando ho prenotato la visita al Museo Egizio di Torino, la prima dopo la fine del lockdown. Il Museo ha riaperto i battenti in occasione del 2 giugno, Festa della Repubblica. Io ci sono stato ieri, sabato 27 giugno.
Nelle righe che seguono potete leggere le mie considerazioni, ovviamente del tutto soggettive e dunque opinabili. Aggiungo però un’informazione: da giugno 2019 ho visitato il Museo Egizio almeno una volta al mese fino al febbraio di quest’anno. Avevo già preso i biglietti del treno per Torino per la visita di marzo, ma è scattato il lockdown e ho dovuto attendere quattro mesi per tornarci.
Quello che ho visto mi è piaciuto. Non mi riferisco tanto al Museo in sé (avevo partecipato alla presentazione stampa dell’inaugurazione del nuovo allestimento delle sale storiche), quanto alla sua fruibilità. Mentre passavo da una sala all’altra vedevo attorno a me pochi visitatori, se paragonati alle folle a cui ero abituato. Qualche visita guidata a gruppi di quattro / cinque persone, o anche più ridotti. Alcune famiglie con bambini. Ho notato anche la presenza di alcuni stranieri (francesi e cinesi, se non sbaglio) e questa è una delle cose che mi ha colpito di più.
Ma ad attirare subito la mia attenzione sono state le indicazioni per terra. Tutto il percorso espositivo è infatti punteggiato da segnali con il messaggio “Mantieni le distanze – Keep the distance” (like an Egyptian, verrebbe da cantare, sulle note di una celebre canzone degli anni Ottanta).

Ho constatato che pochi visitatori, però, rispettano la raccomandazione. È anche vero che fuori, per le vie del centro di Torino, ho visto di tutto. Erano molti ieri quelli con la mascherina appesa al braccio e non pochi quelli che non l’avevano neanche in vista, perché infilata in tasca (presumibilmente).
Regole di comportamento
All’inizio di ogni sezione c’è un dispenser di gel disinfettante e un cartello che riassume le buone pratiche da osservare per il bene proprio e di tutti gli altri. Ovvero: “usa il gel disinfettante. Indossa la mascherina. Mantieni le distanze (2 metri)”.
Sul cartello è anche indicato il numero massimo di visitatori consentito (per esempio nel tempio di Ellesija l’accesso è permesso a una sola persona alla volta ed è un vero privilegio per il fortunato). Il numero è seguito dall’annotazione che le famiglie conviventi e disabili con accompagnatore contano come una “unità covid”.

“Temporaneamente sospeso” diceva la scritta sullo schermo dedicato alla storia della “Description de l’Égypte” di epoca napoleonica. A dire il vero a fine gennaio, dunque ben prima dello scoppio della pandemia, il display era già fuori uso. Me ne sono accorto nella mia visita del 23 gennaio scorso.
Allo stesso modo sono spenti tutti gli schermi touch-screen, proprio per evitare il contagio per contatto. Così sono spariti i foglietti da “leggere con calma” appesi alla parete all’inizio del percorso della mostra “Archeologia invisibile”, ulteriormente prorogata (doveva chiudere il 7 giugno). A casa ho ancora la mia copia, presa durante una delle visite dell’anno scorso.
Il testo del direttore Christian Greco inizia con queste parole: “Oggi ci troviamo immersi nella cosiddetta rivoluzione digitale che ha già profondamente trasformato il nostro approccio cognitivo ed il modo di lavorare”.
Beh, adesso siamo immersi in un’altra rivoluzione di cui nessuno è in grado di prevedere gli effetti sulla media e lunga durata. Anche se rimane valida la constatazione di John Maynard Keynes che gli Egizi avrebbero sottoscritto senza esitazione: “In the long run we are all dead” (Nel lungo periodo siamo tutti morti).
Da “Tocca qui” a “Non toccare”
Non si possono più sfiorare con le dita i campioni di tessuti esposti alla fine del percorso della mostra. Né si possono toccare le riproduzioni della fiaschetta rinvenuta nella campagna di scavo del 2018. Prima si era invitati a farlo per toccare con mano, letteralmente, gli effetti dei progressi della tecnologia, in questo caso della fotogrammetria e della stampa 3D.

Il precedente invito “Tocca qui – Please touch” è stato sostituito con l’attuale “Non toccare – Do not touch”. Segno, davvero, dei tempi. Così come il capannello di gente che ho visto dal finestrone della scalinata, quello che dà su Piazza Carignano. Grazie a uno striscione ho saputo che a protestare erano i lavoratori dello spettacolo, una delle tante categorie professionali duramente colpite dalla crisi causata dalla pandemia.
Ma pensiamo positivo! Mai come prima in passato, ieri ho avuto tutto il tempo e l’agio di sostare davanti alle teche o girarci attorno senza attendere con pazienza il mio turno come si fa quando si è in fila al self service (visitando una mostra “blockbuster” ho sempre questa sgradevole sensazione).
Erano libere anche le vetrine solitamente prese d’assalto, segnalate dagli adesivi degli oggetti “must-see”, quelli che devi assolutamente vedere (e che io, invece, più di una volta mi sono imposto di non guardare, un po’ per ripicca, un po’ come forma di rispetto verso gli altri pezzi “meno importanti”).
Ho potuto osservare senza stress il cubito regale di Amenemope, sovrintendente ai due granai, datato al regno di Horemheb, alla fine della XVIII dinastia. Non avevo accanto nessuno quando ammiravo le “talatat”, i “mattoni” con cui furono costruiti gli edifici dell’Orizzonte di Aten, la nuova capitale di Akhenaton e anche nella Galleria dei Sarcofagi mi sono mosso senza alcun problema, avanti e indietro sotto la guida soltanto della mia curiosità.
Assenti giustificati
Alla fine della galleria mi sono imbattuto in uno dei mini-gruppi guidati da un egittologo del Museo, in questo caso un’egittologa. Ho sentito i genitori ridere un po’ imbarazzati quando la figlia ha risposto “Non so” alla domanda della guida “Cosa fa un archeologo?”. “In effetti – ha chiosato l’egittologa – anche a casa mia mi domandano che lavoro faccia…“. Mi è venuta la tentazione di rispondere come farebbe il professor Paolo Gallo: il lavoro dell’archeologo è cercare finanziamenti…
Qua e là ho visto nelle vetrine cartelli per segnalare i pezzi attualmente in prestito, purtroppo senza l’indicazione della mostra in cui sono esposti. È il caso per esempio della statuetta di Tauret dedicata dal disegnatore Parahotep, al momento presente nella mostra “Sotto il segno di Nut. L’Egitto divino” in corso al Museo Archeologico di Milano.

Solo vedendo sguarnito l’angolo tra la teca delle stele funerarie e quella degli amuleti ho realizzato che sono stati tolti i profumatori dell’Egitto “essenziale”, sempre per ragioni di sicurezza. Va anche detto che è chiuso il bar, non è attivo il servizio di guardaroba e sono chiuse (almeno ieri) le salette in cui sono riposti gli oggetti in fase di studio.
Non mi ha sorpreso constatare che la concentrazione più alta di visitatori era nella Galleria dei Re, la scenografica sfilata di statue che conclude il percorso espositivo. Eppure era per me una situazione paradossale: durante alcune visite dell’anno scorso avevo provato l’esaltante sensazione di godermi questo spettacolo praticamente da solo. In realtà in quei momenti c’erano una o due persone, ma erano sedute tra una statua e l’altra e in prospettiva sparivano alla mia vista.
Naturalmente non ha senso pretendere un privilegio di questo tipo. I musei sono fatti per i visitatori. Su quale sia il loro numero “giusto” il dibattito rimane aperto. Intanto godetevi il Museo Egizio di Torino al suo meglio (magari non andandoci tutti nello stesso giorno in cui ci tornerò io…).
PS: nei prossimi giorni parlerò della mostra “Lo sguardo dell’antropologo”.
Saul Stucchi
Museo Egizio di Torino
Via Accademia delle Scienze 6
Torino
Informazioni:
www.museoegizio.it