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Voi siete qui: L'Antico Egitto: dal periodo predinastico all’età bizantina » Cancel Culture e vandalismo al Museo Egizio di Torino

31 Gennaio 2021

Cancel Culture e vandalismo al Museo Egizio di Torino

“L’ALIBI della domenica” è dedicato questa settimana a un originale percorso nel Museo Egizio di Torino.

Scrivevo giusto un paio di giorni fa, segnalando le conferenze online del mese di febbraio, che purtroppo il Museo Egizio di Torino è tuttora chiuso. Ed eccomi subito smentito! Lunedì 1° febbraio 2021, infatti, il Museo riaprirà i battenti.

Per festeggiare quello che è a tutti gli effetti un avvenimento, l’ingresso sarà gratuito per i primi cinque giorni, ovvero fino a venerdì 5 febbraio. Ne potranno approfittare soltanto i Piemontesi, visto che le regioni messe meglio (o meno peggio) sono attualmente in “zona gialla”, ma permane il divieto di spostamento da una all’altra. Io cercherò compensazione e conforto culturale andando alla Pinacoteca di Brera…

Frammento di statua di nomarca del Medio Regno

Tra cancellazione e ricordo

Ai fortunati visitatori del Museo Egizio vorrei suggerire una proposta di itinerario. Non ha la pretesa di competere con le passeggiate con il Direttore Christian Greco, tuttavia il percorso qui sotto indicato dovrebbe rivelarsi piuttosto interessante. L’ho pensato e seguito durante le mie ultime visite, effettuate prima e dopo il lockdown dell’anno scorso.

È dedicato a un fascio di temi che si intrecciano nei secoli della millenaria storia egizia. A riassumerli in parole chiave direi: censura, damnatio memoriae, cancel culture, vandalismo, iconoclastia, usurpazione / riutilizzo. Numerosi monumenti, statue, stele e oggetti portano i segni di un intervento successivo alla loro creazione originale. Non sempre è possibile stabilirne i tempi, gli autori e le motivazioni, ma quando capita, si scoprono cose molto interessanti.

Ai temi sopra citati si lega indissolubilmente quello della memoria. E il visitatore non dimentichi di rifletterci quando s’imbatterà in due targhe molto speciali. La prima è “In memoria di Giulio Regeni. Ricercatore presso University of Cambridge”. La seconda, posta all’ingresso della Sala Mostre, è dedicata a Khaled Al-Asaad, “Archeologo, scrittore, traduttore siriano e per oltre cinquant’anni direttore del museo e del sito archeologico di Palmira”.

Percorso in 10 tappe

  • Il tema del reimpiego e dell’usurpazione si manifesta fin da subito, addirittura con il pezzo che apre il percorso, ovvero la statua stante a nome di Ramesse II (Cat. 1381). Datata alla prima metà della XVIII dinastia, venne poi riutilizzata nella XIX.
  • Pochi passi ed ecco una statua della dea Sekhmet assisa (Cat. 245), in granodiorite. Risale al regno di Amenhotep III (1390-1353 a.C.) e proviene dal tempio della dea Mut a Karnak. Il cartiglio con il nome del faraone sul lato sinistro del seggio (alla destra dell’osservatore) porta evidenti segni di scalpellatura. Rimando alla tappa n. 6 per la motivazione e anticipo che altre sue “sorelle” sono riunite nella spettacolare Galleria dei Re: anch’esse portano i segni del furore contro le manifestazioni del culto di Amon.
  • Proseguendo nel percorso, ma andando indietro nel tempo, si approda a un certo punto alla Sala 5 del Secondo Piano. Qui in una teca sono esposti i frammenti delle statue di dignitari (nomarchi) del Medio Regno. Erano tra i protagonisti della bella mostra del 2018 “Anche le statue muoiono”.
    Recitava la didascalia allora abbinata a queste teste distrutte e poi ricomposte dai restauratori: “L’accanimento nella devastazione di tombe e statue potrebbe derivare dal rancore nutrito verso personaggi così potenti da parte forse di loro sottoposti o di famiglie rivali”. Il potere, il ruolo e il prestigio goduto dai governatori provinciali Uahka I, Ibu e Uahka II sono rivelati dalla magnificenza delle rispettive tombe, davvero monumentali, presso il sito di Qau el-Kebir, una cinquantina di chilometri a sud di Asyut. Il sarcofago di Ibu è esposto nel primo tratto del percorso del Museo, quello dedicato alla storia della collezione.
George Orwell, 1984, Penguin Books
  • Tre “reperti” fanno invece parte del percorso espositivo della mostra “Archeologia invisibile”, tuttora allestita. Il primo è la copertina dell’edizione Penguin del romanzo “1984” di George Orwell. Ha la particolarità di diventare via via meno “censurata” con l’utilizzo…
    Il secondo reperto è la fotografia in bianco e nero della classe 3 A della “Nonna di Letizia”. Correva l’anno scolastico 1932/33. Spiega la didascalia: “La nonna di Letizia, credendosi brutta, ha tagliato il suo volto. Uno dei piccoli che ritraggo (è la foto stessa a parlare, come nelle stele egizie, ndr), però, non la pensava così, dato che poi è diventato suo marito!”. Il terzo è un orologio da taschino da cui qualcuno ha cancellato i numeri e la data incisi all’interno del coperchio.
  • Un genere particolare di interventi sui manufatti è quello delle correzioni. Anche qui la storia è millenaria e tutt’altro che vicina alla fine, con buona pace dei correttori automatici e dei profeti della “fine della storia”. Osservando il colophon della mostra “Archeologia invisibile” si notano alcune modifiche: una riguarda il nome di uno dei curatori (Susanne Töpfer) e un’altra quelli di stagisti e collaboratori. Persino il numero di un estintore è stato aggiornato con un adesivo che ricopre quello vecchio…
  • Torniamo all’antico Egitto per fermarci in uno dei suoi momenti più intensi. Mi riferisco all’epoca amarniana, quando il faraone Amenhotep IV impone dall’alto una riforma religiosa in senso monoteistico, cambia il proprio nome in Akhenaton (Utile ad Aton) e fonda una nuova capitale: Akhetaton (Orizzonte di Aton). Già questo sarebbe bastato a sconvolgere la vita e la mentalità della maggior parte degli Egiziani di allora. Ma il faraone non si accontentò: volle infatti eliminare i riferimenti agli antichi dei. Di questa violenta campagna di cancellazione è testimonianza il vaso votivo ricomposto da due frammenti con Amenhotep III davanti al dio Atum (S. 3591 – S. 2779). Recita la didascalia: “La censura amarniana non risparmiò nemmeno lo stesso padre di Akhenaten: il suo nome di nascita, Amen-hotep, conteneva il nome del dio Amon, ed è stato dunque cancellato, mentre il nome di incoronazione, Neb-maat-Ra, non è stato toccato”. Proprio come nella statua della dea Sekhmet incontrata alla tappa n. 2.
  • Adesso passiamo alla statua di Hapu, terzo sacerdote-lettore di Amon, in granodiorite (Cat. 3061), datata alla XVIII dinastia, più precisamente al regno di Thutmosi II o di Hatshepsut (1482-148 a.C.). Prima osserviamola frontalmente, poi passiamo alle sue spalle. Probabilmente era collocata in uno dei complessi templari di Tebe, dove subì la “chirurgica” cancellazione del nome Amon e del plurale di “divinità” durante il regno di Akhenaton, ovvero dopo oltre un secolo dalla sua realizzazione. Chiusa la parentesi amarniana, i termini scalpellati vennero di nuovo incisi al loro posto.
  • Trascorrono pochi anni e la situazione si ribalta. Lo testimonia il blocco di un edificio templare ad Amarna reimpiegato come stele funeraria (Vecchio Fondo c. 1563). Bisogna mettersi di lato rispetto alla vetrina per vedere (in verticale) un frammento della scena originale: la porta di un tempio e un cespuglio di loto. Durante la XIX dinastia qualcuno riutilizzò il blocco per realizzare la stele di Pentaur, “servitore nel tempio di Thoth, signore di Ermopoli”: è il personaggio che rende omaggio a Osiride seduto sul trono.
Statua di Seti II al Museo Egizio di Torino (particolare)
  • Scendiamo infine al Piano Terra e percorriamo, in preda allo stupore anche se è la nostra decima o ventesima visita, la Galleria dei Re. Sul fondo campeggia monumentale la statua di Seti II in arenaria (1202 – 1198 a.C.), dal tempio di Amon a Karnak (Cat. 1383). La sorella gemella è esposta al Louvre. Qui a Torino il visitatore si diverta a cercare tutte le cancellature del geroglifico del dio Seth, nei cartigli con il nome del sovrano “Seti Merenptah”, ovvero “Uomo di Seth, amato da Ptah”. L’intervento “chirurgico” è probabilmente frutto della demonizzazione del dio Seth, associato agli oppressori stranieri dell’Egitto. Bisogna invece aiutarsi con uno specchietto o con lo smartphone per vedere l’incisione fatta sulla parte superiore dello zoccolo della statua. È una testimonianza dell’epoca d’oro della corsa ai reperti egiziani che metteva in competizione le potenze europee. La statua venne scoperta a Tebe nel 1818 da Jean Jacques Rifaud, scultore al servizio di Bernardino Drovetti.
  • Il percorso si chiude con i graffiti lasciati sulle pareti interne (ma non solo) del piccolo tempio di Ellesiya. La storia dei graffiti è antica quanto la storia stessa tout court, anzi, probabilmente è addirittura più antica: ché per rovinare una pittura o lasciare un segno del proprio passaggio non occorre che qualcuno si prenda la briga d’inventare la scrittura.
    Rimanendo in Egitto, mi vengono in mente subito due esempi celebri: le incisioni lasciate sui Colossi di Memnone dall’entourage dell’imperatore Adriano in gita sul Nilo (in particolare gli epigrammi incisi da Giulia Balbilla) e quelle dei soldati francesi al seguito di Napoleone Bonaparte durante la Campagna d’Egitto.

Chiudiamo con una raccomandazione, anzi due: durante la visita al Museo Egizio indossate la mascherina e mantenete il distanziamento sociale. Ma soprattutto non lasciate il segno del vostro passaggio sui pezzi della collezione!

Saul Stucchi

Museo Egizio di Torino

www.museoegizio.it

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