I giudizi di Daniel Halévy sul grande Edgar Degas potevano talvolta essere guastati da “una qualche goffa pruderie” ma l’implacabile esattezza di una constatazione definitiva sigillò meritoriamente gli sforzi per comprendere il grande artista: la vita dell’unico pittore di fine ‘800 all’altezza di Cézanne, secondo Halévy fu, almeno da un certo punto in avanti, “una catastrofe inconfessata”.
La spietatezza della sentenza il lettore italiano poteva averla già letta mutuandola dall’imperdibile “La Folie Baudelaire” del magister Calasso, lo stesso che ora pubblica in volume i testi (diari, note, ricordi) del saggista francese, che Degas conobbe personalmente e assiduamente frequentò fin da ragazzino.

Dell’arcigno genio che da amico di famiglia visitava regolarmente la sua casa – simultaneamente conversando e abbozzando schizzi di quei disegni che ne cifravano la grandezza marcandone allo stesso tempo la distanza dagli amici impressionisti – Halévy racconta le prime impressioni (ne fu subito affascinato e lo elesse a personale maestro), l’amabilità di ospite graditissimo messa sempre a rischio da un’inquietudine insopprimibile, e infine il tracollo dell’uomo famoso (e frainteso?) per la leggerezza delle ballerine che, incupito dalla progressiva cecità e una serie di sventure familiari, si trasformerà in un vegliardo austero e reazionario, innamorato di un’idea alquanto retorica della Francia e della sua grandeur (si faceva leggere Dumas padre dalla domestica Zoé), lettore di Edouard Drumont, accanito ideologo cattolico che fu tra i nemici peggiori di Dreyfus.
Degas inveisce
In quelle cene Degas non lesinava invettive – su Zola, il cui proposito di esaurire un argomento in un libro e poi passare ad un altro, trovava “puerile”, sui realisti assertori del vero (“il vero è quello che voglio, è quello che penso”), su Proust che, fraintendendo Manet, omette di dire che si trattava di “un imitatore”, e appunto, fondamentale, sui fautori del plein air.
Fiero del suo isolamento (“Penso che si debba lavorare per pochi. Gli altri non contano niente”), insofferente però di ogni atteggiamento en artiste, sarcastico verso critici e letterati ma autore in proprio di sonetti che Paul Valéry definì “notevoli”, gran camminatore nella Montmartre allora centro del mondo artistico (ora una ridotta di truffatori e marpioni per turisti fessacchiotti – e fascino zero), indotto dalla progressiva cecità a cimentarsi infine quasi soltanto con la scultura, arrivò a costruire bastoni da passeggio – peraltro, sempre Valéry, era “uomo di gusto”.
Il volume di Halévy ci mostra da vicino, alternando la confidenza quasi domestica alla lucidità culturale dell’osservatore, un uomo la cui arte non è stata compresa sino in fondo, travisata dal vasto pubblico (“L’arte per il popolo! Che tristezza!”) nella giostra sempre mobile delle grandi mostre sull’impressionismo – da cui invece Degas seppe e volle prendere considerevoli distanze.
Preferì spendere le residue fortune acquistando tutti gli Ingres che poteva – e due grembiuli per me? protestava Zoé, l’unica donna con cui poterono tollerarsi a lungo.
Michele Lupo
Daniel Halévy
Degas parla
Traduzione di Tommaso Pezzato
A cura di Jean-Pierre Halévy
Adelphi
2018, 245 pagine
20 €