Seconda e ultima parte della tredicesima lettera di Carlotta dallo Zambia (qui la prima).
Sono in viaggio anche in questo momento, a bordo di un bus africano tipicamente lento e traballante, carico di passeggeri con relativi bagagli: bambini, pesce secco, ceste di pomodori e un pollo vivo che mi ha riempita di penne. Viaggio, ergo scrivo.
Il mio sguardo conosce ormai l’altopiano, in questo periodo riarso, rosso e giallo, chiazzato dal verde dei campi solo dove ci sono le sorgenti d’acqua oppure i fondi per portarla fino a lì, e conosce le biciclette a forma di montagna di carbone, il miscuglio variopinto di studenti in uniforme, contadini e venditori che sfila a lato della strada, quindi concede alla mente di concentrarsi su altro. Ho alzato la testa solo per cercare il sole enorme del tramonto, oggi screziato da nuvole sottili – gli altri passeggeri hanno seguito i miei occhi per voltarsi subito dopo: è solo il giorno che muore (una volta a Mansa, ero con Mapalo, 4 anni, treccine come aculei, il cielo stava per esplodere, noi lo guardavamo ferme davanti all’ingresso del mercato, la gente non capiva, un venditore di frittelle mi ha chiesto: ma cosa aspettate? Ho detto: che il sole tramonti, lui mi ha risposto: già, succede ogni giorno). È un cliché? Non so, ma ci sono cose a cui credo sia impossibile abituarsi: l’orizzonte così ampio; la luce mai banale; le fantasie strepitose dei citenghe e il gesto distratto con cui le donne li stringono ai fianchi; la fede che resiste in chi è stato maltrattato dalla vita e la generosità di chi non ha nulla ma divide tutto; la rassegnazione che curva le spalle dei ragazzi più ambiziosi, voti impeccabili ottenuti studiando senza libri e nessuna possibilità di andare oltre il diploma.
Sono immersa in una bellezza che sfugge all’occhio distratto, perché il tramonto dura un momento e il cielo è solo una cornice – bisogna davvero saper guardare oltre, o dietro, o con il cuore, ditelo come vi pare, la sostanza è uguale e il segreto sempre lo stesso: condividere, aprirsi all’altro, amare incondizionatamente. È difficile e meraviglioso, bisogna essere capaci di sospendere il giudizio, mettere da parte desideri e pretese, spogliarsi delle difese così ben erette ed essere pronti ad accogliere ciò che viene come un dono.
Io sono fortunata: ho una certa predisposizione a tutto questo e ne avvertivo un bisogno disperato dopo gli anni milanesi che, ora lo so, ho vissuto in modo sterile e solitario. Poi certo, ogni giorno confermo il mio attaccamento a modalità, tempistiche e principi nostrani, ma qualcosa sta cambiando e ogni giorno apro gli occhi al mondo un po’ più libera e leggera. Mi chiedo se sia abbastanza per rimanere – mi rispondo che in ogni caso ne voglio ancora, di questa vita densa, commovente, innamorata ed essenziale.
Quindi, a chi mi ha chiesto: ci sono forse novità lì dove sei, ché ti sei dimenticata del passato? Io rispondo no, nulla di particolare, è solo altra vita che entra dentro. Certo, mi sono innamorata, ma anche questo si inserisce in una dimensione più ampia, permeata da una sensazione meravigliosa, di calma, di stabilità, di fiducia, di giustezza – non posso né voglio oppormi al corso degli eventi, perché sto camminando nella direzione esatta.
E poi non mi son dimenticata di nulla né considero ciò che ho lasciato come passato: una parte dei miei pensieri è sempre lì – come cerco di spiegare a mio padre, la lontananza fisica ha l’unico effetto di scremare le relazioni, lasciando scivolare via i rapporti annacquati e saldando i legami veri. Sono quelli che mi stanno tirando verso casa: ricevere le lettere della nonna (scannerizzate e inviate da mia madre) non basta, ho voglia di andare a fare la spesa al mercato con lei; consolare a parole le amiche tristi che mi chiamano con la tessera Sisal non funziona bene come un abbraccio; conoscere chi è nato e veder crescere chi era piccino grazie ad una fotografia è un debole, debole palliativo.
Ora è davvero tempo di tornare per godere di ciò che mi manca, perché un anno è lungo – anche se quando i missionari con i capelli bianchi mi raccontano che la prima volta sono rientrati in patria dopo trent’anni, capisco che le nuove generazioni sono cresciute a patatine e videogiochi.. o forse abbiamo semplicemente un’altra velocità. Quindi, io che sono figlia di un mondo duttile, con il positivo e il negativo che ciò comporta, torno presto, carica di presepi di pietra saponaria e calendari – se mi volete prendete il pacchetto completo!
Abbracci.
(seconda parte – fine)
Carlotta
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