Cari tutti,
questa nuova puntata arriva a mesi di distanza dalla precedente – credo fosse Pasqua, la stagione delle piogge era appena finita, si era concluso un periodo per me particolarmente faticoso ed ero in partenza per Mansa, il luogo che lo scorso anno mi aveva rubato il cuore. Mi accorgo una volta di più di come qui il tempo sia un fattore relativo: i giorni scivolano tra le dita senza che li percepisca, forse perché le ore di luce non variano quasi dall’equinozio di primavera a quello d’autunno, ma il momento in cui ho lasciato Ndola e la casa di cui vi parlavo sembra lontanissimo se allineo i chilometri percorsi nel frattempo, i minuti trascorsi al telefono, soprattutto le parole scritte.
Le parole scritte spiegano in parte perché Zambia #13 sia rimasta in bozza per mesi: la vena narrativa pulsava per i report dei progetti e dei tanti bambini e ragazzi adottati a distanza – peraltro moltissimi di voi stanno aspettando quelle notizie, amici parenti insegnanti e alunni, corredate dalle pagelle e dalle foto di quelli che ormai sono anche un po’ figli nostri. Dopo aver consegnato il tutto all’ufficio italiano, sono ora libera di rispondere ai rimproveri, ai solleciti, alle domande e agli auguri arrivati in ordine sparso.
Gli ultimi, gli auguri, mi hanno raggiunta in un luogo magico, al confine tra Zambia, Zimbabwe e Botswana: le Victoria Falls, a ragione una delle sette meraviglie del mondo. Il viaggio per arrivarci è eterno (a meno che non si scelga l’aereo), soprattutto perché sono partita da Mansa e ho dovuto attraversare il paese a bordo del mezzo di trasporto africano per eccellenza, l’autobus troppo carico con i sedili sfondati, che parte con ritardo imprecisato e arriva a destinazione “by the grace of God”, per grazia divina, e “protected by the blood of Jesus”, protetto dal sangue di Gesù, come recitano gli adesivi appiccicati a tutti i parabrezza.
Se volete seguirmi con il dito sulla mappa, partite da Mansa e scendete fino a Lusaka, la capitale, dove sono arrivata a notte fonda: la stazione centrale è un labirinto di baracche che ospitano le biglietterie, autobus giganteschi, file di chioschi sempre aperti, venditori ambulanti che dormono distesi in mezzo alle loro merci; a illuminare il buio solo la luce fioca delle lampadine e i fuochi accesi in vecchi bidoni di benzina; a vegliare sulla sicurezza pubblica un ufficiale di polizia chiuso dentro alla guardiola, a dormire il sonno dei giusti.
All’alba, affamata, agognando un po’ di movimento, ho fatto un giro nel mercato principale di Lusaka, grande come una città, affollato già a quell’ora di persone, merci, cibo – ho scelto banane piccole, di quelle che trovi solo dove crescono e nulla hanno a che fare con quelle che conosciamo noi, e dondò, frittelle di pane malsane ma strepitosamente buone. Poi ho proseguito verso sud, questa volta l’autobus poteva essere definito tale, e dopo un numero di ore che è sembrato l’eternità Livingstone è apparsa come un miraggio. La cittadina non assomiglia a nessun’altra in Zambia e, se si ha la fortuna di visitarla con chi la conosce, rivela la sua storia passata – io viaggiavo con Patrick, che ha vissuto lì tre anni della sua infanzia. Lui mi ha portata alle esposizioni di artigianato, confezionate apposta per i turisti, e nei mercati veri, dove ho trovato stoffe da tutti i paese dell’Africa del sud, nelle bettole del quartiere della polizia e al golf club costruito dagli Inglesi nei primi del ‘900, retaggio dell’epoca coloniale rimasto identico e tuttora frequentato. Poi, il giorno del mio compleanno, alle cascate Victoria, che allora erano il suo parco giochi e ora sono state trasformate in un sito di interesse storico e turistico dotato di mappa, guide e sentieri delimitati.
Si dice che David Livingstone sia stato il primo straniero a scoprirle e abbia dato il via al progetto di costruzione del ponte ad arco che unisce Zambia e Zimbabwe, permettendo il passaggio di treni, veicoli e pedoni – ed è, il ponte, uno dei pochi elementi che denuncia la presenza umana in un paesaggio naturale pressoché intatto.
Ora che siamo in piena stagione secca la portata d’acqua delle cascate è minima, ma lo scenario comunque impressionante: un muro di roccia di cui non si vede la fine, una spaccatura profonda e irregolare che genera il salto del fiume Zambesi e poi lo ricompone, incanalandolo in un percorso tutto a curve stretto tra le pareti altissime del canyon che segna il confine tra i due paesi.
Sono rimasta inchiodata davanti a un’immagine che cambia di ora in ora, perché a seconda della posizione del sole mutano i colori delle rocce, cangianti dal marrone al verde al grigio, e i riflessi dell’acqua, mentre gli arcobaleni si formano, si dissolvono, si incrociano, definendo le zone di luce e di ombra e istigando i fotografi – inutilmente, perché mai nessuno scatto renderà giustizia alla potenza visiva di questo luogo.
Patrick ha convinto un pescatore ad attraversare l’immenso fiume Zambesi insieme a noi, proprio sul ciglio della cascata, dove l’acqua si raccoglie in pozze subito prima di gettarsi nel vuoto – in due di queste, chiamate Angels’ and Devils’ Pool, si può nuotare, e tuffarsi con lo sguardo fisso alla vastità che si spalanca di lì a pochi metri. È una sensazione unica.
E poi il tramonto: la luce radente del sole conferisce al vapore, alla schiuma e agli schizzi una consistenza spessa, per riflettere invece tutte le sfumature del rosso e dell’arancione nell’acqua del fiume, popolato a quell’ora dagli elefanti. È stata una parentesi insperata, vera vita da vacanza, benché priva di tutti gli optional offerti da Livingstone ai turisti, elicottero-safari-crociera-al-tramonto-cena-romantica-sul-treno-vista-cascate.
Abbiamo però speso una giornata nel progetto fondato da Celim, un centro per la formazione professionale nato in un compound periferico: lì i ragazzi imparano a cucinare, a costruire, a cucire, a coltivare – poi vendono prodotti fatti con le stoffe citenghe e lavorano nella cucina di Olga’s, ristorante italiano doc dove i clienti si perdono tra le pagine di un menù incomprensibile ai più, ordinano fidandosi di un vago ricordo, forse da un viaggio nello Stivale, forse da un film, e mai rimangono delusi.
Come sempre mi succede, sono ripartita con gli occhi pieni di meraviglia e un turbine di idee nuove nella mente: è la magia di questo paese che incanta, indigna e sfida nello stesso tempo – o forse è solo deformazione professionale. L’ho definita una parentesi, ma questi molti mesi sono stati una scoperta ed un viaggio continui, fisicamente e metaforicamente intesi.
Ogni family trip, gita famigliare, con la folta tribù di Mansa, a spasso per una Luapula Province inaspettatamente ricca di acqua: quella rossa del lago Mweru e quella verde del Bangweulu; quella delle Ntumbachushi Falls, che salta tra le palme e la savana gialla; quella delle sorgenti calde, perfetta nelle notti invernali
e la caccia alle feste tradizionali, tripudio di musica e balli e costumi e rituali diversi per ciascuna tribù – la benedizione della semina, il guado del fiume, l’assaggio dell’umunkoio, la birra ottenuta dalla fermentazione del mais e dell’omonima radice: in questi casi chi detiene pieni poteri è il chief, che dispone della terra e dei suoi abitanti. E poi ogni giornata di outreach, marciando nei compound con lo zaino pesante di acqua e le birkenstock ormai allo stremo per visitare le scuole e le abitazioni, incontrare gli insegnanti, i parenti, i tutori, ma soprattutto loro, i ragazzi adottati a distanza, quei figli anche un po’ miei e anche un po’ vostri che hanno assorbito le mie velleità letterarie negli scorsi mesi. E ogni volto nuovo e persona ritrovata, ogni meeting di progetto, riunione di casa, incontro di riflessione, ogni corsa nei campi ora bruciati e induriti dai fuochi di sterpaglie e dalla stagione secca, così come ogni momento di raccoglimento, occhi chiusi dalle mani a coppa, forse quelli che mi portano più lontano.
(prima parte – segue)
Carlotta
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