Partenza dall’aeroporto di Orio al Serio. A bordo uno stewart requisisce una forbice a una signora bionda. Sono entrambi meravigliati: lei per il sequestro, lui per il fatto che la passeggera sia riuscita a superare i controlli senza alcun problema.
A metà volo un ragazzo davanti a me accende il cellulare per controllare se ha ricevuto messaggi. Manca solo il fanatico dirottatore e poi siamo al completo. Prima di partire ho acquistato il biglietto per il pullman che porta da Ciampino alla stazione di Termini. È stata una mossa azzeccata perché ho risparmiato sia denaro, rispetto al prezzo fatto pagare sull’aereo, sia tempo: parto infatti con il primo mezzo a disposizione, dopo pochi minuti dall’atterraggio.
Facciamo un pezzo del Grande Raccordo Anulare e incontriamo la Casilina. Non potevo quindi esimermi dall’ascoltare la canzone omonima dei Radioglobo, successo dell’estate scorsa. L’hotel che ho scelto – il Flavia – è dalle parti di via Veneto. Ha solo due stelle ma è molto più che dignitoso; l’ingresso addirittura è elegante. La mia singola è molto piccola, tuttavia è ben tenuta e il bagno è pulito. Purtroppo manca la scrivania e devo quindi appoggiare il portatile sul letto per scrivere.
La prima tappa è all’AULA OTTAGONA, alle Terme di Diocleziano. In passato ho tentato varie volte di visitarla ma l’ho sempre trovata chiusa. Una volta ho addirittura litigato con il responsabile del museo che si scusava del disagio mostrandomi il calendario delle assenze per malattia o ferie dei custodi. A quella vista, mi sono meravigliato che il museo fosse aperto, non che fosse chiusa l’Aula. Anche oggi ho trovato le porte chiuse, mentre tre ragazzi sembravano andarsene sconsolati. Il cartello dichiarava però che il monumento doveva essere regolarmente visitabile, pur essendo un giorno festivo: San Pietro e Paolo, i patroni di Roma. Ho dato un’occhiata furtiva attraverso la fessura tra i due battenti e ho ammirato alcune statue collocate sul fondo. Provo a spingere e incredibilmente i battenti si aprono su un ambiente meraviglioso. Entro stupito in uno dei posti più affascinanti che offra Roma. È come essere al Pantheon, con la differenza che qui ci sono pochissimi visitatori, meno di una decina. Mancano anche i marmi policromi e le tombe dei Savoia, in compenso sono esposte alcune statue molto belle.
Riconosco al volo il busto di Caracalla (figlio di Settimio Severo; uccise il fratello Geta tra le braccia della madre. E poi dicono i giovani di oggi…) e mi soffermo davanti a quello di un anonimo, proveniente dalla via Cassia e datato al 235/245 dopo Cristo. Raffigura un uomo maturo, stempiato, piuttosto magro, con un sorriso appena accennato che contrasta con le sopracciglia aggrottate. Assomiglia a Diabolik. Tre “ferite” sulla fronte sono forse i segni di una caduta rovinosa. Al suo fianco la testa di un negretto in marmo bigio morato, della prima età imperiale. Ammiro alcune raffinate urne cinerarie; una è in alabastro egiziano e sembra una zuppiera.
Attraverso mezza Roma a piedi, sotto un sole africano. Mangio un’insalata dalle parti della chiesa del Gesù e poi ritorno ai Fori. Oggi è la prima volta che ci vado, ma per me è sempre un ritorno: per me Roma, infatti, significa come prima cosa Fori imperiali. Ammiro l’arco di Settimio Severo, guardo la colonna di Foca, controllo se è aperta la Curia (no, oggi no), do un’occhiata al tempio di Antonino Pio e di sua moglie Faustina, mi riposo all’ombra degli alberi che ricoprono la via Sacra. Sopra di me la mole del Palatino. Ritrovo l’arco di Tito e mi siedo qualche secondo sulla colonna di porfido atterrata che c’è lì vicino: di più non potrei restare perché la temperatura supera abbondantemente i trenta gradi e il sole è implacabile. Sbuco all’arco di Costantino (che in realtà era di Adriano: il primo imperatore cristiano ha “rubato” il monumento per celebrare la sua vittoria su Massenzio, limitandosi a sostituire alcune parti e riscrivendo le iscrizioni trionfali). Costeggio il Colosseo e arrivo alla basilica di San Clemente, una delle mie preferite. Il pavimento intarsiato di marmi colorati è sempre lucido di cera. Come al solito cerco i frammenti di iscrizioni sepolcrali dispersi qua e là tra le mattonelle che compongono disegni geometrici. Ripercorro i fori, mi riposo nei pressi dello spiazzo a fianco dell’arco di Settimio Severo. C’è un matrimonio: arrivano lo sposo con la madre e poi la sposa col padre, anticipata da una coppia di vigili in moto, stile Chips. Dai vestiti, dalle abbronzature e dalla scelta della chiesa deduco che si debba trattare di gente altolocata.
A Santa Maria Maggiore cerco la tomba di Paolina, ma non la trovo. Do un’occhiata alla guida rossa del Touring, ma inspiegabilmente non ne parla. Esco dalla chiesa ed entro in un internet point. Controllo la posta (niente di speciale) e verifico che la tomba di Paolina è effettivamente in Santa Maria Maggiore: nella cripta. Rientro in chiesa, solo per constatare che la cripta è chiusa. Per consolarmi compro un gelato e poi torno in albergo. Ceno in via Veneto, mangiando un’insipida pizza al tonno. Il commensale al mio fianco aspira rumorosamente i suoi spaghetti, io leggo È oriente di Rumiz.
Saul Stucchi