Lunga vita a Wole Soyinka, ottantaduenne scrittore e attivista politico nigeriano in questi giorni in Italia. Nell’occasione Jaca Book ne ripropone “L’uomo è morto”, libro che ha una sua drammatica importanza nel racconto della violenza politica del secolo scorso.
Soyinka conobbe il carcere alla fine degli anni Sessanta, quando in Nigeria la guerra civile fece conoscere al mondo il Biafra. “L’uomo è morto” racconta questa esperienza con l’intelligenza del controllo, la lucidità di chi al patetico – e altroché se non sarebbe stato legittimo – preferisce l’analisi del significato della propria condizione.
Non sembri irriverente, ma la sorveglianza a tratti fenomenologica con cui Soyinka guarda alla propria vicenda sapendola ampliare in una storia di guerra interna alla specie umana ha qualcosa dell’immenso Primo Levi (più ancora che dell’Arcipelago Gulag richiamato dall’editore). Sguardo fermo coadiuvato da una scrittura all’altezza del compito, ciò che fa del memoriale qualcosa che oltrepassa il valore meramente documentale della testimonianza.
La cifra linguistica che definisce, al solito, la forza di un pensiero si chiama sintassi: la sua complessità qui traduce l’imprendibilità della posizione dello scrittore, ciò che sfugge al potere dei tiranni. La terza via che Soyinka rivendica fra le parti in causa passa attraverso una lingua meno sontuosa di quanto lo scrittore e drammaturgo nigeriano non abbia saputo dimostrare nella sua lunga produzione, ma tutt’altro che “di servizio”.
Nella lettera che lo spedisce in galera la giustizia non coincide né con le ragioni dei secessionisti del Biafra né, ancor meno, con la dittatura militare – bene lo spiega nella vecchia ma ancor valida prefazione l’indimenticato Oreste del Buono. “Cessate il fuoco” la ragione sostanziale di Soyinka: per i carcerieri un enigma che non possono spiegarsi. Quando vanno a incatenargli le gambe – piombo pesante – sembrano vergognarsene. Sanno chi è quell’uomo, e lui, lo scrittore affermato, ben conosciuto in Occidente – Soyinka ha peraltro vissuto a lungo in Inghilterra – rivede nella scena una storia ormai secolare, iniziata col commercio degli schiavi.
Wole tiene il punto, rende complicata la vita agli aguzzini, alla parola-corpo che incarna a dovere la negletta disposizione della parresìa, egli sa che deve connettere “cautela” (“anche l’aria è inspirata con cautela, con intenzione. D’ora in poi tutto è calcolo”).
Wole conosce i “giochetti psicologici” degli interrogatori; sa come destreggiarsi fra gli sguardi curiosi e perplessi che fanno seguito allo spostamento in un’altra prigione. Tutt’altro che ingenuo: è un uomo coraggioso, che è cosa diversa. Ma è uno scrittore. La sua lettera è fatta di dichiarazioni esplicite – e un’idea di pace molto attiva, esposta con veemenza, facendo nomi e cognomi dei colpevoli (recentemente, ha dichiarato che l’Italia è sprofondata nella rinuncia – come dargli torto?, e con altrettanta decisione si è più volte pronunciato contro la follia islamista).
Su questo, a distanza di anni, nel 1983, in occasione di una nuova introduzione, Soyinka scrive cose meritevoli di attenzione (peraltro rivolte ai potenziali compagni di strada assai frolli e perbene) specie di questi tempi politicamente correttissimi e perciò assai ipocriti:
Quando il potere è posto al servizio di una reazione feroce, bisogna creare un linguaggio che faccia del suo meglio per appropriarsi di questa enorme corruzione e rinfacciargliene gli eccessi. Criticare questo linguaggio è semplicemente da schizzinosi o da cristiani (…) Tale critica dovrebbe cominciare con l’attaccare il ribollente letame di maltrattamenti disumani da cui un tale linguaggio è nato.
Memoriale fra i capitali del Novecento.
Michele Lupo
- Wole Soyinka
L’uomo è morto
Prefazione di Oreste del Buono
Con un testo di Luigi Sampietro
Jaca Book
340 pagine, 18 €