Di solito non ascolto i consigli di lettura che mi vengono fatti. Non per altri motivi che per la gelosia con cui custodisco la mia libertà di scelta. (Beh, sì: anche per un pochino di snobismo, devo riconoscerlo). Questa volta però mi sono fidato e adesso sono qui a ringraziare la “mia” bibliotecaria Cristina per avermi proposto “I ragazzi della Nickel” di Colson Whitehead, pubblicato da Mondadori. La traduzione è di Silvia Pareschi che ha tradotto anche opere di Jonathan Franzen, Zadie Smith, Don DeLillo e Cormac McCarthy, solo per citare qualche autore.
Il romanzo si è meritato il premio Pulitzer 2020 per la categoria narrativa (fiction) e chi lo leggerà capirà bene il perché. E poi magari passerà a leggere – se già non l’aveva fatto in precedenza – “La ferrovia sotterranea”, premiato con il Pulitzer nel 2017 (due riconoscimenti a testa avevano ricevuto in passato Booth Tarkington, William Faulkner e John Updike).

Vorrei però iniziare questa breve recensione de “I ragazzi della Nickel” da una delle ultime pagine del libro, facendo comunque attenzione a non rivelare nulla di troppo.
A volte era difficile ricordare com’erano brutti i vecchi tempi – chinarsi a bere da una fontanella per neri quando andava a trovare la sua famiglia in Virginia, gli immensi sforzi compiuti dai bianchi per opprimerli – e poi d’un tratto le tornava tutto in mente, scatenato da cose piccole come starsene in piedi all’angolo della strada cercando di fermare un taxi, un’umiliazione abituale che Millie dimenticava dopo cinque minuti perché altrimenti sarebbe impazzita, e da cose grandi come guidare attraverso un quartiere degradato, annientato proprio da quegli immensi sforzi, o l’ennesimo ragazzo ammazzato da un poliziotto: ci trattano come subumani nel nostro stesso paese. Lo hanno sempre fatto. Forse lo faranno sempre”.
Riformatorio? Prigione!
La citazione viene da pagina 205, ma per arrivarci il lettore dovrà scendere nei gironi infernali di una scuola-riformatorio della Florida. Quando riemergerà dalla catabasi, non troverà una notte serena trapuntata di stelle. Oggi come ieri l’America brucia. La Nickel e i suoi ospiti sono frutto della fantasia di Whitehead, ma lo scrittore ha usato per impastare le sue storie fatti veri. Il lavoro degli archeologi della University of South Florida ha riportato alla luce le ossa di decine di vittime, ragazzi di colore uccisi mentre frequentavano la Dozier School for Boys di Marianna, la vera Nickel. Uccisi a bastonate, a frustate, a pugni, dopo mesi e anni di soprusi, violenze, stupri e angherie.
C’è il mondo fuori dalla Nickel (e non è certo un paradiso, soprattutto per i ragazzi neri) e c’è il mondo a parte della scuola-riformatorio, una definizione eufemistica per il carcere minorile che in realtà era. Quest’altro mondo ha le proprie leggi e regole, assurde e incomprensibili proprio come quelle del mondo di fuori. Lo imparano subito i due protagonisti Elwood e Turner, così come prima di loro l’hanno imparato – letteralmente sulla propria pelle – i ragazzi che sono arrivati alla Nickel prima di loro.
Arbitrari sono premi e punizioni, tanto che, pur incolpevoli, si può scivolare indietro nel percorso che dovrebbe portare alla redenzione (e all’uscita dalla scuola) dopo aver percorso le quattro tappe che fanno dei ragazzi progressivamente dei Muli, Esploratori, Pionieri e Assi.
Ci sono anche ragazzi bianchi nella scuola di correzione, ma ricevono tutto un altro trattamento. Così anche nel campus si ripete la stessa divisione che contrappone le due comunità, anzi le due società “là fuori”. In mezzo c’è un ragazzo messicano, Jaimie, che fa la spola tra i due lati della barricata: la sua pelle è troppo scura per farlo stare nella parte dei bianchi e troppo chiara per tenerlo in quella dei neri.
Elwood e Turner
Come ciascun ospite (detenuto), il lettore imparerà cosa siano la Bellezza Nera, la Casa Bianca e la Fabbrica del Gelato. E poi ne proverà terrore. Lo stesso sentimento che lo accompagnerà nella rievocazione dell’incontro di boxe tra la “Grande Speranza Bianca” Big Chet e quel “potente strumento di violenza” che era Griff.
“La chiave per sopravvivere qui dentro è la stessa che serve per sopravvivere là fuori: devi guardare come si comportano gli altri, e poi devi imparare a girargli intorno come in un percorso a ostacoli. Se vuoi uscire di qui”, spiega Turner a Elwood. Ma i due ragazzi hanno concezioni diverse del vivere, non soltanto dell’obiettivo primario, “uscire” per Turner e “diplomarsi” per Elwood.
Riporto un passo della lunga recensione che il New York Times ha dedicato a “The Nickel Boys”, per la firma di Frank Rich, il 14 luglio del 2019:
The books feel like a mission, and it’s an essential one. In a mass culture where there is no shortage of fiction, nonfiction, movies and documentaries dramatizing slavery and its sequels under other names (whether Jim Crow or mass incarceration or “I can’t breathe”), Whitehead is implicitly asking why so much of this output has so little effect or staying power”.
Le parole “I can’t breathe” facevano riferimento alla morte di Eric Garner, soffocato per la morsa di un poliziotto durante il suo arresto a New York, il 17 luglio del 2014. Nonostante le ripetute richieste di lasciarlo respirare (11 volte!), l’agente non mollò la presa, con esito letale per Garner. Pochi giorni fa abbiamo rivisto una scena molto simile per le strade di Minneapolis, con George Floyd che urlava – invano – le stesse parole. “I can’t breathe”.
E dalla mente del lettore non si schiodano più le parole di Millie: “o l’ennesimo ragazzo ammazzato da un poliziotto…”.
Saul Stucchi
- Colson Whitehead
I ragazzi della Nickel
traduzione di Silvia Pareschi
Mondadori
2019, 216 pagine
18,50 €