Se è vero che nella commedia “Le allegre comari di Windsor” Shakespeare fa dire a Pistol “il mondo è la mia ostrica”, sembra altrettanto vero che alla fine del XVI secolo, e forse tutt’ora, il mondo fosse un vero e proprio palcoscenico. Questa è la sensazione che si trae leggendo “Il mondo inquieto di Shakespeare” di Neil MacGregor, autore anche di “Vivere con gli dei” (entrambi editi da Adelphi).
Qui l’ex direttore della National Gallery e del British Museum illustra, grazie anche a una serie di bellissime fotografie, la realtà culturale, economica, politica e geografica del mondo nel quale visse il Bardo, accompagnandoci nell’individuazione di tali realtà nascoste nel lavoro del drammaturgo inglese.

Quello era un universo in espansione grazie alle esplorazioni dei grandi navigatori, fra i quali Francis Drake e Walter Raleigh, cari alla Tudor. I loro successi intorno al globo rappresentarono non solo un inesauribile afflusso di ricchezze in soccorso dell’asfittico erario di Elisabetta I, ma anche un grande apporto di materiale umano per nutrire l’immaginazione degli artisti.
Il teatro – mondo
Il fatto che il Cigno dell’Avon abbia battezzato Globe il suo teatro sembra quindi non essere un puro caso, bensì un chiaro riferimento allo svelarsi di un globo i cui confini si allargavano a dismisura, e alla conseguente curiosità che esso esercitava su di lui.
In Macbeth il re, appresa la notizia della morte della regina, mormora “la vita è solo un’ombra che cammina, un guitto che si agita e pavoneggia la sua ora sul palco, e poi non ne sa più niente”: l’accostamento fra la vita e la scena non demarca allora il confine fra fantasia e realtà, ma anzi afferma che ciò che si riproduce sulle assi del palcoscenico altro non è che un fedele riflesso di ciò che avviene fuori dal teatro, o che tutti noi siamo parte di una recita.
Inevitabile dunque che un uomo sensibile e attento a ciò che avveniva intorno a sé vedesse di buon occhio il ribollire di eventi che caratterizzarono quell’epoca e lo considerasse fonte di ispirazione al punto da fare dire ad Amleto che “ci sono più cose in cielo e in terra, mio caro Horatio, di quante ne possa immaginare la tua filosofia”.
Leggere questo libro ci permette di comprendere non solo lo spirito del tempo in cui visse Shakespeare, ma anche di riconoscere una serie di grandi e piccoli avvenimenti della Storia che sono andati poi ad alimentare l’opera del genio di Stratford-upon-Avon.
Londra e Venezia
Che Londra era quella degli ultimi decenni del Cinquecento? Era una città vivace, superstiziosa, ignorante e razzista, spesso tumultuosa, popolata da ubriaconi e attaccabrighe, agli angoli delle cui vie era facile incontrare beoni gaudenti e iracondi non dissimili da Falstaff. Le risse e i duelli non mancavano e spesso i litiganti ci lasciavano le penne, pur non chiamandosi Mercuzio o Tibaldo; come loro, tuttavia, erano pratici nell’uso dello spadino e del pugnale, secondo la tecnica inglese, perché quella italiana era vista con sussiegosa diffidenza.
Al contrario l’Italia, in particolare Venezia, era guardata con ammirazione per quanto concerneva il gusto per l’abbigliamento e le suppellettili, nonché per i piaceri che in essa si potevano gustare senza limitazioni, differentemente dalla puritana Inghilterra: pare che le prostitute veneziane fossero oggetto di fantasie erotiche e sogni proibiti sulle rive del Tamigi.
La storia di Shylock non avrebbe potuto essere ambientata nella capitale britannica, perché gli Ebrei erano stati banditi da duecento anni circa, come peraltro i Marocchini (in seguito a una sollevazione di popolo che aveva costretto la regina a firmare controvoglia un editto). A Venezia, al contrario, non era scandaloso che un uomo di colore si unisse a una giovane donna bianca, cosa invece difficile nell’Inghilterra dei Tudor.
I temi di costume e politici, nonché quelli religiosi che animavano i capannelli nei pressi del London Bridge, si riversavano sulla scena al punto che spesso lo spettatore si recava a teatro per farsi un’opinione. O per imparare la storia della terra di Albione.
Effetti speciali per un penny
Un penny era il costo per poter entrare a Westminster e ammirare le tombe, gli scudi e le spade dei grandi re d’Inghilterra. Un penny era altresì il prezzo per poter entrare al Rose, al Curtain o allo stesso Globe e assistere alle vicende di Enrico IV, Riccardo III e così via. Perché le opere di Shakespeare metabolizzano la paura di cospirazioni, lotte di successione, invasioni da parte degli odiati Francesi o sconfitte sulle coste d’Irlanda, elaborandola poi in spettacolo appassionante, anche grazie ad effetti speciali ideati da scienziati, allora visti come stregoni, che con giochi di luci e di specchi permettevano di riprodurre una tempesta nell’oceano, una deserta isola tropicale, o il volo di un folletto dispettoso in una notte di mezza estate.
Forse che il teatro elisabettiano, di cui Shakespeare e Christopher Marlowe erano le figure più eminenti, abbia avuto il ruolo di informazione e indirizzo che durante il Ventennio fascista spettò all’Istituto Luce?
Al di là delle provocazioni, quello sviluppatosi sotto la figlia di Enrico VIII divenne un’attrazione popolare, ben diversa dagli spettacoli che venivano messi in scena a Whitehall, a cui avevano accesso solo gli altolocati membri della corte reale: nella Wooden O (la “o” di legno come era chiamato il Globe, citando il coro dell’Enrico V) i cittadini londinesi si assiepavano a prescindere dalle differenze di classe, per svagarsi, divertirsi, gozzovigliare, ubriacarsi, azzuffarsi, o fare il tifo per un personaggio, riconoscendosi nelle vicende rappresentate.
E soprattutto, come si può vedere nella scena di “Shakespeare in love” di John Madden (scena nella quale il pubblico resta ammutolito alle fine della prima rappresentazione di Romeo and Juliet), emozionarsi. Perché il teatro è sempre la magia del verosimile.
Simone Cozzi
In copertina: Calice di vetro con figura di donna a smalto. Venezia o stile veneziano (1590-1600).
The Trustees of the British Museum
Neil MacGregor
Il mondo inquieto di Shakespeare
Traduzione di Carlotta Fonzi
Adelphi
2017, 315 pagine
22 €