L’opera, il caso di dire, monumentale, sul Lessico del cinema italiano, inaugurata due anni fa, giunge alla conclusione con il terzo atteso volume. E con ciò mostra una marca già presente nei due lavori precedenti ma ora segnata da una più netta, insistente evidenza – supponiamo non casuale benché tutta l’opera sia il risultato di interventi compositi ognuno applicato a un lemma diverso.
Ci è parso cioè di scorgere un’attitudine complessiva all’indagine sul metafilmico interno alla vasta produzione raccontata (che si tratti del cinema popolare degli inizi o di Fellini o Garrone ecc…) Tutto ciò benché il cinema italiano – lo spiegava con parole nette il curatore Roberto De Gennaro all’inizio di questa avventura e lo ribadisce nella postfazione al volume conclusivo Francesco Casetti – abbia seguito (questa sì indole nazionale?) più “la vita” che i problemi legati alla formalizzazione di uno stile, di un metodo, di un credo estetico.
Allergico alle regole, alla militare obbedienza a una poetica sistematica, il cinema italiano è sempre l’occasione per gli studiosi qui presenti di una più o meno implicita assunzione di punti di vista da parte di registi e sceneggiatori sui fatti, le storie, le illusioni raccontate ma sul modo stesso in cui la scrittura ha pensato di poterlo fare.
Che si tratti di ragionare sul “Quotidiano” o sulla “Storia”, sulla “Tradizione” o sulla “Religione”, e ancora sugli “Ultimi”, la “Vacanza” e la proliferazione intermediale alla voce “Zapping” – si chiarisce in ultimo il senso del sottotitolo, “forme di rappresentazione e forme di vita”.
Sì che, come in effigie finale, è possibile scrivere: “i media hanno contribuito in maniera decisiva a un senso più forte di comunità nazionale” – col che contraddicendo clamorosamente il più volte citato Pasolini (se non fosse fragoroso lo sgretolamento di qualsiasi identità nel balordo Luciano del Reality di Garrone) e ampliando la questione della rappresentazione ben al di là del cinema.
Lo stesso Pasolini nel saggio di Alessio Scarlato sulla religione è contrapposto a Fellini: il primo ancorato a una prospettiva sacrificale nella quale la paradossale salvezza viene messa in carico ai poveri cristi del mondo suburbano e premoderno – come ognun sa –, laddove il secondo ha già, niccianamente, assorbito la caduta per reinventare genialmente l’illusoria e funerea festa di una chiesa in cui vita e morte sono puro, barocco, spettacolo.
Attraverso i lemmi chiave si è coperto saggisticamente uno spazio immenso, includente la storia filmica italiana dalle sue origini a oggi, interrogata a partire da specole visive cristalline, capaci di zoomare su dettagli tecnici rivelatori quanto di allargare il campo a speculazioni filosofiche. Il motivo unificante di cui abbiamo detto all’inizio si collega a una domanda decisiva: come e quanto potesse dirci il cinema della identità italiana (ma all’inverso, come non poteva non tradursi in uno sguardo cinematografico un modo di essere italiani).
Ne è emerso – e più volte sottolineato – un paradosso fondativo: ché la nostra identità fluttua su un’assenza. La voce “Storia” (firmata da Christian Uva) ripercorre esemplarmente questa frattura; che dall’inizio il cinema italiano prova a ricomporre: è il 1905 quando Filoteo Albertini dirigendo La presa di Roma tenta di costruire un epos eroico da cui far emergere un senso – e alto fino all’improbabile – dell’identità nazionale. Ne ha bisogno la patria giolittiana, se ne farà un’ossessione quella fascista, da Vecchia guardia di Blasetti a Condottieri di Luigi Trenker.
Se del ripiegamento in senso neorealista (una poetica grandezza caso mai trovata nel piccolo, nei margini – Rossellini docet) – dei nostri cineasti migliori tutti sanno, è utile ricordare invece come l’intreccio indissolubile fra vita e rappresentazione (filmica) ben si coniughi con l’incertezza di fondo sul nostro statuto di Italiani: come esso si traduca in film quali Vinceremo di Bellocchio o Come eravamo di Martone: film in cui non casualmente la storia è fatta anche di repertori di immagini coeve, ché la Storia questo è: fatti e loro rappresentazione.
Peraltro, nelle opere indagati nel saggio di Alessia Cervini appare evidente come difficilmente si sia data nella nostra storia una qualche fiducia non si vuol dire nella rivoluzione ma almeno nella ribellione degli ultimi. Dal realismo drammatico a quello fiabesco (certo De Sica), slittando fino a quello rosa (pensiamo a Poveri ma belli) al nostro cinema – alla nostra storia – ciò che è sempre mancato è il popolo.
Per chi non avesse contezza di quest’opera edita da Mimesis e curata da Roberto De Gaetano rimandiamo alle precedenti due segnalazioni qui su ALIBI (vedi in calce, ndr), ricordando che nell’insieme consta di ventuno interventi su altrettanti voci tematiche, e ognuna di esse è seguita da una filmografia minima di 25 titoli, alcuni dei quali costituiscono il perno di ogni singolo saggio. Un’opera certamente ambiziosa.
Michele Lupo
- Lessico del cinema italiano – Volume III
a cura di Roberto De Gaetano
Mimesis
508 pagine, 28 € - Recensione di “Lessico del cinema italiano – Volume I”
- Recensione di “Lessico del cinema italiano – Volume II”