Davanti alla manifestazione del genio, in qualunque ambito si palesi, la mia prima reazione è la commozione. Mi succede, per esempio, sotto agli affreschi della Cappella Sistina; quando leggo Shakespeare; o nella penombra di San Pietro in Vincoli, al cospetto del Mosè di Michelangelo; mi succedeva perfino assistendo alle volée imprevedibili di John McEnroe o ai dribbling di Dejan Savićević.

Questa commozione, che nulla ha a che vedere con la Sindrome di Stendhal, mi ha colto più volte anche ieri sera, durante il bellissimo spettacolo “Io, Ludwig van Beethoven” andato in scena al Teatro Litta di Milano, che sta proseguendo la sua programmazione grazie all’ostinata dedizione di Valeria Cavalli e del gruppo di lavoro coordinato da Antonio Syxty, capaci di districarsi agilmente fra i vincoli imposti dall’emergenza sanitaria e di proporre dei lavori sempre interessanti.
Uomo e musicista
Il monologo scritto e interpretato in modo eccellente da Corrado d’Elia ci accompagna nell’esplorazione del Beethoven uomo e del musicista. I due aspetti si fondono inevitabilmente, perché il talento artistico del compositore di Bonn è connaturato con il suo carattere insolito.
Il giovane Ludwig, infatti, era un disadattato, testardamente riluttante alle banalità obbligate della vita sociale, tanto da renderlo incapace di parola fino a dieci anni. Straordinario atteggiamento, se letto in un’epoca in cui i social imperano, declinando in modo inappellabile l’esistenza e l’accettazione di ogni individuo all’interno della propria comunità.
Per un animo talmente introverso da rifiutare quasi completamente il contatto con i simili (che oltretutto si facevano beffe dei suoi modi goffi e degli abiti trasandati che indossava), la musica divenne presto un rifugio. Di più: la musica fu l’utero caldo e protetto dove Beethoven si immerse definitivamente per compiere la propria trasumanazione.

La descrizione della metamorfosi che lo mutò da disadattato a Dio dell’arte, si dipana quindi all’interno di una scenografia essenziale, dove i giochi di luce e uno sgabello hi-tech sono gli unici elementi di cui si giova l’attore per duettare, con intensità degna di nota, con l’altra protagonista sulla scena: la Musica.
Sì perché, come l’autore fa dire a Beethoven, “la musica è tutto”, e se c’è la musica il resto è superfluo. Calandosi nell’ascolto delle sinfonie che accompagnano il monologo, si ha come l’impressione di compiere un viaggio lisergico, sorretto dalla poderosa forza delle note e dalla struggente sensibilità del testo e della recitazione.
Beethoven ai margini
“Io, Ludwig van Beethoven” scorre delicato e potente come solo il teatro può fare, in equilibrio fra diversi registri: l’indagine umana, la lezione di musica, l’esplorazione dell’emotività.
Essere genio tuttavia comporta uno scotto da pagare, uno scotto pesante: l’incomprensione degli altri e la sfida che il pubblico ingaggia con chi si eleva sulla mediocrità, suscitando invidia e critiche capziose; una sfida per non essere dimenticato.
Ecco allora l’inevitabile deriva verso l’oblio che portò Beethoven ai margini della scena austriaca, soppiantato dal virtuoso Paganini, che affascinava i viennesi con i suoi atteggiamenti da rockstar, così distanti da quelli di Ludwig; dagli Strauss che facevano divertire a suon di valzer i sudditi asburgici desiderosi di buttarsi alle spalle i tristi anni di guerra e di ballare spensieratamente; infine dall’ascesa del fenomeno giocoso e brillante di Gioacchino Rossini e dei musicisti italiani.
Ma il talento assoluto del musicista tedesco genera, quando sembra ormai tardi, una vampata violenta e orgogliosa che lo porta a scompaginare i consolidati canoni musicali dell’epoca e lo ispira alla composizione che più di tutti lo eleverà, riportandolo al centro della scena musicale, colmando di stupore tutti gli appassionati: la Nona Sinfonia, una frattura con il proprio passato e con quello della musica tutta.
La Nona Sinfonia
La Nona di Beethoven elabora e metabolizza in sé il testo dell’Ode alla gioia di Friedrich Schiller, e la gioia si sprigiona da ogni strumento coinvolto, e da ogni voce del coro che ne esprime il tripudio.
Sentendo parlare di gioia mi è sorto spontaneo un parallelo incompiuto. Il piccolo Beethoven era stato vessato dal padre che lo spronava rudemente perché diventasse un grande artista. Un destino simile è capitato ad Andre Agassi, il grande tennista degli anni novanta che in “Open” raccontò le angherie subite dal padre che lo voleva campione ad ogni costo. Ma, mentre il tennista americano giunse ad affermare di odiare lo sport che lo aveva reso celebre e ricco, nel Beethoven di d’Elia non si rinviene nulla di tutto ciò.
Nel lavoro a cui ho assistito ieri sera ho colto invece tutta la gioia dirompente e benefica di un uomo trasfigurato dall’immersione nella propria arte, una gioia che lo portò a comporre la sinfonia che lo ha reso eterno. Il tutto nonostante egli fosse gravato dall’handicap più beffardo per un musicista, la sordità progressiva fin dalla giovane età. Menomazione che tuttavia non impedì il realizzarsi del miracolo della sua opera, completata con gli ultimi quartetti che, sul palcoscenico, vanno a sottolineare un finale denso e struggente.
Simone Cozzi
Foto di Angelo Redaelli
Io, Ludwig van Beethoven
progetto e regia di Corrado d’Eliacon Corrado d’Elia
Informazioni sullo spettacolo
Dove
MTM Teatro LittaCorso Magenta 24, Milano
Quando
Dal 13 gennaio al 25 ottobre 2020Orari e prezzi
Orari: da martedì a sabato 20:30domenica 16:30
lunedì riposo
durata 60 minuti
Biglietti: intero 25 €; ridotti 20/15 €