Verrà proiettato nelle sale cinematografiche italiane soltanto nelle date di lunedì 11, martedì 12 e mercoledì 13 aprile 2022 il docufilm “Tintoretto. L’artista che uccise la pittura”. Si tratta di una coproduzione internazionale che ha visto coinvolti Kublai Film, Videe, ZetaGroup, Gebrueder Beetz Filmproduktion, in collaborazione con la rete televisiva franco-tedesca ARTE.
Ne firma la regia Erminio Perocco, con la fotografia di Giovanni Andreotta e il montaggio di Matteo Trevisan, mentre le musiche originali sono state realizzate da Carlo Raiteri e Teho Teardo.

In poco meno di un’ora e mezza racconta l’incredibile carriera di Jacopo Robusti, detto il Tintoretto dal mestiere del padre Giovanni Battista, appunto tintore. Niente di particolarmente avventuroso da segnalare nella sua biografia (1518 – 1594). Il discorso, invece, cambia radicalmente quando si passa dalla vita all’arte. Il film si apre e si chiude con i suoi due autoritratti: quello conservato al Philadelphia Museum of Art ce lo mostra poco meno che trentenne (attorno al 1546-48). Il secondo, esposto al Museo del Louvre di Parigi, raffigura invece il pittore ormai anziano, quarant’anni dopo, verso il 1588.
Il primo regista
Tra i due estremi si srotola la vicenda artistica di questo genio che Jean Paul Sartre ha definito “il primo regista cinematografico della storia”. Il filosofo e scrittore francese è una delle “guide” seguite per presentare agli spettatori l’opera di Tintoretto. Ci sono poi interventi di diversi studiosi, dal prof. Luciano Pezzolo al direttore del Museo del Prado Miguel Falomir Faus, passando per l’artista spagnolo Jorge R. Pombo (Barcellona, 1973).
Oggi Tintoretto sarebbe un regista innovativo, ma all’epoca veniva accusato di osare troppo, di dipingere in maniera troppo ardita. Anche i posteri si divisero tra critici e sostenitori, finché gli Impressionisti e i Post-Impressionisti (su tutti Cézanne) non lo riscoprirono come loro antesignano.
Il film si sofferma sui capolavori assoluti del maestro veneziano, sulle opere che hanno segnato le tappe della sua carriera, a cominciare dalla tela intitolata “San Marco libera uno schiavo” in cui mostra a tutti quello che sa fare il suo “terribile cervello” (per ricorrere alla pregnante definizione del Vasari).

Analizza gli effetti della luce e la composizione delle scene costruendo modellini di scenografie con statuette e bambole. Allo stesso modo il regista Perocco ricorre ad attori per realizzare vivaci tableaux vivants dalle tele del Tintoretto. E come il maestro veneziano – suo conterraneo, peraltro, anche se ora il regista vive a Milano – ha studiato “come sciogliere l’attimo nella liquidità dell’azione”, così Perocco ha utilizzato tutti i mezzi che la tecnologia mette a disposizione per mostrare l’arte del Tintoretto come non si riesce ad apprezzarla durante una normale visita nei musei o nelle chiese.
Opere gigantesche
Non deve essere stato facile filmare alcune delle gigantesche opere del Robusti. Alla fine dell’anteprima milanese, ieri sera al Cinema Mexico, ho chiesto al regista – presentato dalla storica dell’arte Silvia Regonelli – quali difficoltà abbia incontrato durante le riprese.
“È stata un’avventura”, ha confermato Perocco. Per fortuna la produzione ha potuto contare sulla disponibilità del monsignore che ha in cura la chiese nelle quali si trovano le opere. Ha dato loro il permesso di girare con il drone, mentre in altri casi hanno dovuto costruire sia dei “castelletti” che dei bracci di 15 metri, solitamente usati nel cinema per girare le scene di grande movimento. Hanno dunque usato tre tecnologie diverse con mezzi che hanno richiesto lavoro e fatica per essere impiegati.
Perocco ha tenuto a sottolineare che voleva evitare di mostrare le opere dal basso. Nella visione dal vivo l’occhio umano dello spettatore è in grado di pareggiare il parallasse, mentre risulta molto fastidioso vedere sullo schermo un grande quadro con la parte bassa molto larga che si restringe progressivamente. Perciò ha cercato in tutti i modi di arrivare all’altezza giusta per mostrare come sono realmente le opere.
Le Ultime Cene
“La Crocifissione” che riempie la parete di fondo della Sala dell’Albergo nella Scuola Grande di San Rocco (ovviamente a Venezia) misura oltre 12 metri di larghezza. Tanto per fare un confronto: la tela de “Le nozze di Cana” del Veronese, ora esposta di fronte alla Gioconda al Louvre, sfiora i 10 metri (si ferma a 9,9).
Naturalmente c’è molto altro nel docufilm: la competizione con Tiziano, la Controriforma (sapevate che nel primo Indice dei Libri Proibiti, datato 1559, c’erano le traduzioni in volgare della Bibbia?), il rapporto con i committenti, la perdita dell’adorata figlia Marietta. E poi diverse versioni de “L’Ultima Cena”, sempre diverse. L’ultima, uno dei suoi capolavori assoluti, l’ha dipinta per la chiesa di San Giorgio Maggiore nei suoi ultimissimi anni di vita.
Un’altra opera somma su cui si sofferma il lungometraggio è “Susanna e i vecchioni”. È conservata al Kunsthistorisches Museum di Vienna, ma fino al 5 giugno sarà esposta nella mostra “Tiziano e l’immagine della donna nel Cinquecento Veneziano” allestita al Palazzo Reale di Milano (insieme a un altro paio di opere del Tintoretto). Un’ottima occasione per unire arte e cinema, proprio come fa il film “Tintoretto. L’artista che uccise la pittura”.
Saul Stucchi
Tintoretto. L’artista che uccise la pittura
- Regia: Erminio Perocco
- Montaggio: Matteo Trevisan
- Fotografia: Giovanni Andreotta
- Musiche: Carlo Raiteri e Teho Teardo