Non era un teorico del cinema Ozu, come è accaduto ad altri grandi cineasti (dai russi storici ai francesi della nouvelle vague – lo rileva lo studioso di cinema orientale Dario Tomasi nella prefazione a questi “Scritti sul cinema”, curati da Franco Picollo e Hiromi Yagi per Donzelli). Eppure, le sue sparse, occasionali riflessioni su un’arte in cui fu maestro rendono molto bene – quasi con didascalica semplicità – la propria idea di cinema.
Squisitamente schietto
Chi lo conosce almeno un po’ non si aspetterebbe un’indole polemica e avrebbe ragione; ciò non toglie che il grande cineasta, nonostante il conclamato desiderio di armonia, nei suoi modi quieti, speculari a quelli espressivi, dicesse la sua con squisita schiettezza.
Se lo star system non faceva per lui, Ozu si limitava a notare che in fondo non era nemmeno una peculiarità del cinema, ma il teatro kabuki ben prima aveva fondato il suo prestigio su quello degli attori (così, spostandoci sensibilmente in senso longitudinale, il melodramma non poteva fare a meno di tenori e soprano conclamati per riempire i teatri di Napoli o Milano).
Con la differenza che mentre per un attore di kabuki la disciplina e l’applicazione rigorosa non erano mai opzionali, nel cinema potevano darsi casi più aleatori e rilevanti solo a livello commerciale: così il mitissimo regista del “Viaggio a Tokio” si costringeva a fare l’esempio di Shirley Temple.
L’apprendistato – per chiunque lavorasse nel cinema – è peraltro una delle idee ricorrenti del libro. Ozu iniziò all’epoca del muto, faceva l’aiuto regista a un tale Ōkubo Tadamoto, specialista di nansensumono (pare di capire, una versione filmica di qualcosa che potrebbe sembrare la nostrana commedia dell’arte), lavorava al montaggio, scriveva sceneggiature.
Maestro del non-detto
Il regista insuperabile del non-detto, dei sottesi, dell’ellissi, delle sfumature di tono impercettibili, delle variazioni infinitesime all’interno dell’inquadratura, della recitazione in minore (“si dovrebbe poter esprimere un’esplosione di rabbia anche senza alzare la voce”), spiega inoltre perché preferiva circondarsi di compagni fidati, dai tecnici agli attori.
Cercava una particolare sensibilità, una rarefazione (Paul Schrader, in un libro anch’esso edito da Donzelli lo definiva “stile trascendentale”) cui era necessaria una preliminare intesa di fondo con coloro che partecipavano alla realizzazione dei suoi film; mirava a una visione che stimolasse le capacità di percezione degli spettatori (prendete l’elenco precedente, rovesciatelo, e avrete quasi tutti gli ingredienti della cattiva fiction).
Una via diversa, anche, rispetto a quella dei trucchetti facili, dei movimenti di macchina (una speciale idiosincrasia per le dissolvenze), delle musiche melodrammatiche e ricattatorie che suppliscono alle carenze strutturali della scrittura, della presunta grammatica del cinema (le regole nell’utilizzo di tecniche codificate) – Ozu ironizza sull’enfasi del primo piano, ingenuo tentativo di drammatizzare un’emozione:
Se per esprimere il dolore della morte di un fratello minore si fa un primo piano della faccia intera, quando morirà il fratello maggiore si dovrà fare un primo piano un po’ più grande, e quando morirà la madre si dovranno riprendere solo il naso e gli occhi.
La domanda sembra un gioco poco serio, da saggio burlone con gli occhi a mandorla, appunto – se non fosse che non è nemmeno understatement, ma qualcosa che assai assomiglia al buon senso del genio (Borges dixit).
Michele Lupo
- Yasujirō Ozu
- Scritti sul cinema
- A cura di Franco Picollo e Hiromi Yagi
- Prefazione di Dario Tomasi
- Donzelli
- 2016, pp. XXIV-248, 26 €