L’editoriale “L’ALIBI della domenica” è dedicato a una piccola disavventura del direttore di ALIBI Online. E a una grande lettura.
Venerdì ho trascorso un paio di ore al Pronto Soccorso. Niente di grave per fortuna. Mi è stato assegnato un “codice verde”. La sala d’attesa non era vuota, ma nemmeno gremita. Una sola persona indossava la mascherina. Nessun segnale di psicosi da Coronavirus, a meno da non considerare come segnale la stessa scarsa presenza umana nella solitamente affollata sala d’attesa.
Nemmeno il personale del PS indossava la mascherina. Tutto come sempre, sembrava. Anche l’accoglienza: professionale e un poco fredda. “Il prossimo” e “Tessera sanitaria” al posto dei più urbani “Buongiorno” e “Come si chiama?”. Si vede che l’empatia non è materia d’esame a Medicina o esiste soltanto nelle serie TV del filone “ER”.

Aspettando che sul display comparisse il numero assegnatomi (lo 039, da buon brianzolo), ho letto le cinque pagine quotidiane de “I fratelli Karamazov” di Dostoevskij, precisamente da 301 a 305 della vecchia edizione dei Grandi Libri Garzanti con la traduzione di Alfredo Polledro e l’introduzione di Fausto Malcovati.
Stavo per mettermi a piangere. Non per il dolore alla gamba, su cui si era appena rovesciato l’impianto hi-fi di mio fratello maggiore, ma per la forte emozione di ritrovare, trent’anni dopo la prima lettura, uno dei brani più intensi del romanzo che considero fondamento della mia personalità culturale. (No, non me l’aveva consigliato il professore del ginnasio che invece aveva suggerito “L’idiota”. Era stato proprio mio fratello a passarmelo, insieme al contagio per Dostoevskij. Del resto è una storia di fratelli, questa mia come quella…).
A metà di quelle cinque pagine lo stàrets Zosima spiega ad Aleksjèj Karamazov il motivo per cui l’ha mandato da suo fratello maggiore, Dmìtrij, citando il passo del Vangelo di Giovanni, XII 24, che compare in esergo al romanzo.
Ti ho mandato da lui, Aleksjèj, perché pensavo che il tuo volto fraterno gli avrebbe fatto del bene. Ma tutto viene da Dio, e anche i nostri destini. «Se il chicco di grano, caduto in terra, non morirà, rimarrà solo; ma, se morirà, darà molto frutto».
Da quando la lessi la prima volta, trent’anni fa, è una delle mie citazioni bibliche preferite, insieme a un passo da uno dei libri più corti dell’Antico Testamento. Avevamo fatto scrivere quel passo di Giovanni anche sul libretto del matrimonio. E venerdì ricorreva proprio la data delle nostre prime nozze, quelle celebrate in Municipio. Qualche giorno dopo le avremmo celebrate con rito religioso in chiesa.
Seduto in sala d’attesa, con il libro sulle ginocchia, ancora non sapevo che quello non sarebbe stato il momento emotivamente più intenso del pomeriggio. Di lì a poco avrei ascoltato la storia di un bambino che “aveva sprezzato il pericolo”, lanciandosi in una “discesa ardita” con il suo skateboard. Teneva una sacca di ghiaccio posata sulla tempia, ma mia moglie gli ha strappato un largo sorriso quando gli ha detto che neanch’io, ormai vicino ai cinquanta, sto molto attento quando mi muovo. La gamba fasciata alla bell’e meglio era lì a dimostrarlo.
Hanno chiamato prima lui di me. Destino ha voluto che rincontrassi lui e sua madre nella saletta d’attesa del chirurgo. Lì noi due adulti ci siamo raccontati in sintesi le nostre disavventure professionali, approfondendole pochi minuti dopo nella terza sala d’attesa. Storie di licenziamenti, di amarezze e delusioni, di carriere scolastiche praticamente gemelle (lei liceo classico a Milano e poi Lettere Classiche alla Cattolica, io liceo a Monza e poi Statale), di progetti per rimetterci in carreggiata, di lutti familiari, di figli.
Avevo nella mente “Io, Daniel Blake” di Ken Loach, visto qualche giorno fa su RaiPlay. Le sale d’attesa in cui ci spostavamo seguendo i nostri rispettivi iter di cura mi ricordavano quelle del film. Così le nostre storie di lavoratori del settore editoriale messi ai margini, le nostre professionalità svilite, i nostri sacrifici sprezzati.
La sua mano velocemente appoggiata al mio avambraccio ha fatto vacillare la mia tenuta emotiva. Io che solitamente sono tanto riservato da sembrare scontroso e chiuso avevo in pochi minuti condiviso con una sconosciuta le pagine buie della mia vita e della mia carriera. E nelle orecchie mi risuonavano le ultime parole di Daniel Blake:
Non sono un cliente, né un consumatore, né un utente, non sono un lavativo, un parassita, né un mendicante, né un ladro, non sono un numero di previdenza sociale, né un puntino su uno schermo. Ho pagato il dovuto, mai un centesimo di meno, orgoglioso di farlo. Non chino mai la testa, ma guardo il prossimo negli occhi e lo aiuto quando posso. Non accetto e non chiedo elemosina. Mi chiamo Daniel Blake, sono un uomo e non un cane; come tale esigo i miei diritti, esigo di essere trattato con rispetto. Io, Daniel Blake, sono un cittadino. Niente di più e niente di meno”.
Non so ancora se martedì, giorno del mio compleanno, andrà in scena al Piccolo Teatro Strehler lo spettacolo “I fratelli Karamazov” nell’adattamento di Glauco Mauri e Matteo Tarasco, per la regia dello stesso Tarasco. Spero tanto di sì. Giusto tre anni fa – me l’ha ricordato Facebook – al Piccolo Teatro Studio avevo visto un Fausto Russo Alesi strepitoso “Ivan” Karamazov.
Intatto aspetto, fiducioso, che il chicco dia “molto frutto”.
Saul Stucchi