C’era il pittore “puro”, il misterioso Vermeer di Vaudoyer e Proust, l’artista sedotto dal “puro oggetto plastico”, munito di “una pazienza cinese, una capacità di nascondere la minuzia e il procedimento di lavoro che troviamo solamente nelle pitture, nelle lacche e nelle pietre intagliate d’Estremo Oriente” (ancora Vaudoyer) e che nascondeva, per i più, un qualche ineffabile segreto.
C’era, perché poi una critica meno impressionista e maggiormente documentata sul finire del millennio ha cominciato a guardare meglio nella macchina produttiva del genio olandese per asciugarla dai vapori di una ricezione alla lunga stucchevole – come è accaduto ne “L’ambizione di Vermeer” del celebre storico dell’arte Daniel Arasse, volume ripubblicato ora da Carocci dopo l’edizione einaudiana del 2006.

Arasse ha cercato non tanto di vedere di cosa fosse fatto il presunto, ineffabile mistero della pittura di Vermeer ma quali effetti derivassero da una pratica artistica condotta con piena coscienza diremmo di poetica. Che non celava un segreto ma tutt’al più provava a evocarne irresistibili suggestioni nello spettatore (spesso riuscendovi magnificamente).
Arasse mostra come Vermeer condividesse sì un orizzonte pittorico e mentale con i suoi contemporanei ma nutriva la sua arte di una precisa volontà di dar luce all’interiorità declinando così in maniera originale la pittura di genere – di interni, in specie – tipica del suo tempo. Un’arte, quella del pittore di Delft, che tende a celare i recessi insondabili dell’intimità e a lasciare all’immaginazione la sua parte – compresa quella involontaria degli studiosi del settore che per due secoli non avevano tenuto in conto che la carriera di Vermeer in vita fosse stata non priva di soddisfazioni, benché dipingesse ogni anno non più di due o tre quadri.
Anche per questo dato bastava tuttavia una spiegazione assai poco esoterica: godendo di altre fonti di reddito Vermeer non aveva bisogno di dipingere per campare. Ciò spiega ancora perché nel suo catalogo scarseggino i ritratti, tema ritenuto assai commerciale, laddove a Vermeer interessava la pittura in sé. Vale per questo l’allegoria de “L’Arte della pittura”, sorta di esplorazione teorica perseguita, ancora una volta diversamente dall’arte coeva, in maniera assai personale.
Grande spazio è dedicato al tema del quadro-nel-quadro; pure qui, un genere diffuso ai suoi tempi viene piegato da Vermeer in una direzione non più o necessariamente emblematica o morale. La stessa libertà che il pittore si prende nella citazione del quadro interno, l’indifferenza alla sua copia “realistica” proiettano l’opera verso una sospensione di senso che ne cifra la fascinazione anche per noi quattro secoli dopo, nonostante la serie di letture iconografiche di cui pure Arasse rende conto nella sua indagine.
Lo studioso ovviamente non evita il rischio di congetture interpretative centrate sulla conversione del pittore al cattolicesimo – funziona allo scopo un’opera però poco vermeeriana come l’“Allegoria della Fede”. Congetture sostenute, va detto, da una robusta acribia critica.
Il volume, peraltro non privo di una sua sobria eleganza, contiene le immagini di tutta l’opera del pittore olandese.
Michele Lupo
Daniel Arasse
L’ambizione di Vermeer
Carocci Editore, 2019
186 pagine, 28 €