Se possedessi i segreti dell’arte del disegno, raffigurerei Stefano Faravelli seduto all’ombra di un platano (o anche sub tegmine fagi) e tenterei di emularne l’abilità di miniatore trasformando ogni foglia in un fumetto che ne racchiude un pensiero. Non posso contare invece che su una modesta pratica di scrittura con la quale cercherò di abbozzare un ritratto dal vivo del celebre artista (ma “disegnatore” sarebbe riduttivo? Mi domando). Svelo subito che Stefano Faravelli è un incantatore. Lo è con pennelli e colori, ma lo è, forse ancora di più, con le parole. Conoscevo da tempo le sue opere e senza esitazioni posso aggiungermi al novero dei suoi estimatori, letteralmente incantati davanti alla magia dei disegni attraverso i quali, più che raccontare, apre porte su luoghi che magari abbiamo visitato ma che lui ci fa venire il dubbio di non aver visto veramente. Confesso però di essere rimasto stupefatto dalla dimestichezza con cui disserta (e nel verbo non c’è alcuna sfumatura che tenda al pedante nozionismo) di taoismo, geomanzia, testi sacri indù, usi e costumi orientali, sure coraniche.
Quello con lui posso definirlo un almuerzo (colazione) delle intenzioni, dato che al bar dell’hotel Chiostro di Verbania dove ci siamo incontrati non siamo riusciti a intercettare un cameriere a cui ordinare qualcosa da bere. Poco male: non si vive di solo caffè. Raramente la memoria trattiene gusti, sapori e colori di cibi e bevande che pure gustiamo a tavola. La conversazione che ho avuto il piacere di intrattenere con lui, sul finire di un’intensa giornata allo scorso festival LetterAltura invece la conserverò senza dubbio tra i miei ricordi.
La chiacchierata parte dalla Description de l’Egypte perché ho notato in occasione di una sua mostra a Brescia una forte affinità con le opere dei savants al seguito di Bonaparte. Gliene chiedo eventuale conferma, che mi dà ringraziando anche l’editore Taschen per aver riprodotto in un solo volume tutte le tavole dell’immensa impresa editoriale che proprio duecento anni fa ebbe il via per volere di Napoleone (e che la Francia ricorda con una mostra a Les Invalides).
Loda anche la “sublime intelligenza” di Vivant-Denon e ricorda con un sorriso il celebre ordine di radunare asini e savants al centro dello schieramento a quadrato in caso di attacco nemico. Quello che l’ha particolarmente colpito, mi dice, è il fatto che i Francesi abbiano fatto fondere le pallottole per fare le mine, intendendo quelle per disegnare, non gli ordigni esplosivi. Pur nell’inutilità e nella violenza della spedizione militare, questo e altri episodi chiariscono la differenza tra la campagna egiziana e le successive invasioni propagandate con il fine di “liberare” popoli e paesi. Le sue parole, come del resto i suoi disegni, svelano una profonda passione per l’Egitto (e per l’Oriente), tanto profonda quanto la conoscenza che ne ha. Spiega che ai suoi carnet lavora molto sul posto, preso da una sorta di bulimia, ma cerca anche di catturare l’atmosfera e la luce per portarsele a casa.
Cita come modello Delacroix che sfruttò le risorse dei viaggi in Oriente per un ventennio di lavori nel suo atelier parigino. Per Faravelli il carnet è come un mappamondo medievale: un luogo della memoria ma anche della meditazione.
Da viaggiatore e da artista non ha smesso di andare in cerca dell’Aleph, come nel celebre racconto di Borges. Ma il suo lavoro è anche una forma di risarcimento contro l’imbruttimento del turismo di massa.
Nella mostra Uno sguardo stupito, in corso a Omegna fino al 31 agosto, mi soffermerò su una piccola scena che mi aveva già colpito all’esposizione bresciana. In un angolo della tavola dedicata al tempio di Abu Simbel Stefano si è disegnato, vestito all’orientale, in mezzo tra David Roberts e un ignaro turista in calzoncini (ignaro nel senso di inconsapevole, impreparato, inappropriato…), quasi a raffigurarsi come l’anello mediano di una catena degenerativa. Con modestia si distanzia dal maestro ottocentesco, ma insieme prende le distanze dal contemporaneo che nulla sa e tutto fotografa.
Ma torniamo a Verbania. La moglie e i figli sono seduti al tavolino con noi e per qualche minuto deviamo la conversazione sui nomi biblici che entrambi abbiamo scelto per il figlio maschio. Chiede ai ragazzi di andare a prendere in macchina il cofanetto con i carnet. Penso alle copie stampate e invece i figli tornano con una cassetta di legno contenente gli originali. Faravelli me li squaderna davanti come fossero Moleskine qualsiasi e non preziosi capolavori. Si sofferma su un fotomontaggio che “porta” il mare fin sotto la Grande Piramide di Giza. Le sue opere sono anche un tentativo di risarcire il paesaggio dello svuotamento “estetico e semantico” che sta subendo ormai da decenni.
La chiacchierata prosegue in giardino, dove salutiamo Predrag Matvejevic’ che entrambi abbiamo conosciuto proprio qui al festival. I legami tra le diverse culture lo affascinano. Allora gli racconto del primo almuerzo con il professor Gallo che da anni scava sull’Isola di Nelson, dove ha trovato le testimonianze del passato macedone di Alessandria. Lui mi parla della sua fondazione, disquisendo con trasporto di geomanzia e sapienza orientale (cita e mi consiglia l’opera Il mulino di Amleto di Giorgio de Santillana e Hertha von Dechend, edito da Adelphi). I minuti corrono e lui ha altri impegni, mentre io devo sbrigarmi se voglio arrivare in tempo per vedere la sua mostra prima che chiuda.
Saluto tutta la famiglia (e la simpatica pierre a cui devo la combinazione di questo incontro) e parto per Omegna. Prima di riprendere l’autostrada verso casa, noto l’insegna di un caffè chiamato Nelson. Metto la freccia e torno indietro per bermi un marocchino ripensando ad Alessandria, all’isola di Nelson nella baia di Aboukir, ai sapienti di Napoleone alle prese con un mondo sommerso da sabbie millenarie. Non potevo lasciarmi sfuggire quest’ultima suggestione mediterranea prima di tornare coi piedi per terra nella pianura padana.
PS: arrivato a casa trovo un articolo su Borges pubblicato sull’inserto culturale de El Pais. Ne traduco qui un breve brano perché mi sembra il perfetto suggello di questo “ritratto”.
“In un incrocio di strade Borges un giorno invocò il caso, gettò i dadi di ambra sulla sabbia e uno di questi dadi gli offrì la sua settima faccia. Su di essa c’erano immagini sovrapposte di labirinti, specchi, tigri e coltelli, tutte ineludibili e un cumulo di metafore, il tempo come fiume, la vita come finzione, la morte come sonno e lui stesso come “l’altro”: con questa materia il destino lo obbligò a essere Borges, uno scrittore condannato a scrivere favole senza morale. Disse Blake che nulla esiste se non è stato immaginato”.
Saul Stucchi
Uno sguardo stupito
I taccuini safari di Stefano Faravelli
Dal 26 giugno al 31 agosto 2009
Orari: da martedì a sabato 10.00-12.30, 15.00-18.00; domenica 15.00-18.00
Ingresso libero
Fondazione Museo Arti e Industria di Omegna
Parco Pasquale Maulini 1
Omegna (VB)
Informazioni:
Tel. 0323.866141