Quindicesima parte del reportage di Marco Grassano sulla Provenza.
L’alba inizia ad accendere i suoi barlumi. Gli oggetti della stanza emergono gradualmente dall’oscurità. Dapprincipio in bianco e nero: gli azzurri paiono grigi, i marroni sagome nerastre. Poi anche i colori prendono corpo, si definiscono. Fuori, si ode arrivare a soffi, fischi e sibili un’aria che ci fa temere il mistral, ma che finisce subito per annullarsi nella calura incipiente del mattino.
La nostra radio portatile grigia, sintonizzata su TFM – Toute la France en Musique, trasmette, mentre ci prepariamo per la colazione, la lacrimosa Bohème aznavouriana, la grande melodia di Jacques Brel su brume, cieli grigi e pianure, il vivace ritornello di Nino Ferrer in cui il telefono di Gaston suona e non risponde mai nessuno.
Oggi puntiamo su Avignone.
Facciamo il pieno nei pressi di Orgon, al distributore multiplo che ci appare repentino, sulla sinistra, tra il verde di un viale. La strada, man mano che ci si avvicina alla città, si fa ampia, a corsie plurime, ripetutamente interrotte da crocicchi semaforizzati. Attorno, i capannoni artigianali e i palazzetti sportivi s’infittiscono. Sembra di essere alla periferia sud di Torino, nella zona di Corso Unità d’Italia.

Arriviamo davanti ai bastioni e, attraverso la Porte Limbert, varchiamo la compatta cinta muraria per imboccare Rue des Teinturiers. Dopo varie e disagevoli giravolte, imposte dai sensi unici, lasciamo la macchina nel grande parcheggio a più piani che si affaccia su Place Pie XII. Mi viene in mente che l’intitolazione toponomastica si potrebbe anche tradurre “Gazza dodicesima”.
Da Place St. Jean-le-Vieux seguiamo una serie di vie pedonali lastricate in pietra chiara, che puntano verso ovest e possono far pensare, per l’afa e per l’intensità della luce, a una Malaga senza ventilazione marina. Usciamo, alla fine, in Place de l’Horloge, di fronte all’austerità neoclassica del Municipio, calpestando un suolo arabescato dall’ombra dei platani.

Cambiamo direzione e ci portiamo a nord, verso il foro quasi imperiale da cui si eleva la mastodontica massa del Palazzo dei Papi. La costruzione ci pare troppo grande, troppo impegnativa, troppo labirintica per allettarci a visitarla [NOTA 1].

Tutti ci offrono volantini sui più disparati spettacoli teatrali, da tenersi un po’ dovunque. Anche le poche librerie incontrate traboccano noiosamente di soli testi sul teatro. Col profluvio di commedianti e di turisti che si mescolano d’intorno, ben poche caratteristiche provenzali riusciamo a scorgere in città.
Scendiamo alcune rampe gradinate, di fianco al Petit Palais. Attraversiamo la corta galleria di un mediocre edificio moderno. Vi si allineano vetrine di abbigliamento. Usciamo nei pressi del Ponte di St. Bénézet, quello della famosa canzonetta appresa a memoria in Terza Media: “Sur le pont d’Avignon l’on y danse tout en rond; les belles dames font comme ça, et puis encore comme ça…”.

Un vasto parcheggio accoglie numerosi pullman turistici. Il piano di camminamento si trova più in alto rispetto al livello stradale, e si arresta a metà fiume. Vi saliamo. Lo percorriamo fino all’estremità, a picco sopra la placida corrente. Sull’altra sponda, dritto di fronte alla linea di pietra degli archi interrotti, un campeggio traluce tra le piante rigogliose della ripa. Mi telefonano, in questo momento, due colleghi d’ufficio, per sapere come sto e come va la vacanza. Dicono anche di aver letto il mio libro su Lisbona [NOTA 2].
Torniamo verso la testa del ponte. Sporgendoci verso l’acqua liscia e scura, visitiamo i due spogli santuarietti sovrapposti che costituiscono la Cappella di St. Nicolas.

Ci inerpichiamo adesso sui muraglioni, per seguire un tratto del cammino di guardia. Da qui saliamo ancora, fino ai giardini del Rocher des Doms. Ne perlustriamo i vialetti ombrosi, lungo i quali si aggira il trenino per adulti che prima attendeva in piazza i suoi potenziali passeggeri.

All’interno di un recinto, su un’area inumidita da un laghetto torbido, fitto di papiri e di tenere canne palustri, ci incuriosisce, in mezzo a una famiglia di ochette, un uccello grigio, col becco giallo, pure appartenente alla famiglia degli anatidi. Purtroppo, non siamo in grado di definirne la specie.
Una montagnola artificiale di massi, cemento e terra, da cui zampilla acqua e dalla cui cima si domina l’intero paesaggio: il fiume, col ponte monco e l’intera riva destra; al termine del borgo, un mosso tappeto di alberi dai molteplici verdi, steso verso la gobba azzurrata del Mont Ventoux; in basso, il labirinto di tetti del centro storico. Mi ricorda l’altura analoga che avevo scalato nel Jardim da Estrela di Lisbona: a volte, la fantasia degli architetti di aree verdi è un po’ ripetitiva [NOTA 3].

Discendendo i larghi lanci di gradini che ci riportano al palazzo pontificio, incrociamo una sorta di cow-boy dal cappello in cuoio grezzo. Quasi albino, trasporta sulla schiena il suo altrettanto nordico bimbetto, lasciandolo incoscientemente esposto all’urto temibile del sole di luglio. La madre, biondo-castana, avvolta in un’ondeggiante gonna zingaresca, arranca dietro di loro a lunghi passi flemmatici e si sventola neghittosa con una mappa della città. Entrambi calzano brutti sandali.
Sulla piazza palatina, una banda di neri in abiti variopinti tambureggia e vocifera per allestire una bizzarra coreografia. Passiamo dietro il gruppo e ci immettiamo in Rue de la Peyrolerie, rasentando muraglioni vertiginosamente alti che ci inquietano con l’incombere della loro mole opprimente.

Non sapendo dove andare a mangiare, sostiamo, per una birra, in un bistrot dalle parti della chiesa di St. Pierre. Troviamo quindi un locale invitante all’ombra della torre di Rue St. Jean-le-Vieux, sul margine settentrionale della piazza omonima: L’Aquarium. Apprezziamo molto la soupe de poisson, gradevolmente zafferanata, e la tenerezza del filetto al pepe rosa.
Nel pomeriggio ci portiamo, lentamente, lungo Rue des Marchands. Piena di negozi, di boutiques e di caffè, più che un angolo di Provenza si direbbe Via Nazionale, a Roma.
Passeggiando, finiamo in Rue Joseph Vernet. Di fronte all’Hotel Europe svoltiamo a destra, imboccando una viuzza lunga e poco frequentata. Al primo bar, ci sediamo nuovamente. La televisione trasmette immagini di una gara ciclistica, con interviste ai corridori francesi.
Ci aggiriamo ancora un po’ nei paraggi dei bastioni, del ponte e del Palazzo, mentre il crepuscolo si indora in un cielo che principia impercettibilmente ad arrossarsi.
Andando verso la macchina, troviamo infine, in Rue Carnot, una vera libreria, La mémoire du monde. La commessa mi propone uno sfarzoso tomo della Pléiade Gallimard, con le opere complete di Henri Michaux. Le dico che preferisco attendere l’edizione italiana, nella collana gemella di Einaudi. Acquisto invece la nitida preziosità linguistica delle versioni di Marguerite Yourcenar – da Kavafis e dai poeti greci classici – e la sfolgorante Provence di Jean Giono.
Una volta tanto, rientriamo al castello che è ancora chiaro.
Note
1) Il Palazzo l’abbiamo poi veduto in dettaglio nel 2016. Abbiamo parcheggiato lungo il fiume, vicino a una ruota panoramica che mi ha fatto pensare al film “Il terzo uomo” e alla sua malinconica musichetta. Seguendo il marciapiede, ci siamo spostati verso nord, fino a trovare una porticina pedonale attraverso cui varcare le colossali mura. Abbiamo proseguito dritti, lungo un angusto passaggio fra pareti di case che ci ha portati in Rue Joseph Vernet. L’abbiamo attraversata, continuando in Rue Saint Agricole.
Arrivati in testa all’oblunga, ombreggiata Place de l’Horloge, piena di terrazze di bar, l’abbiamo percorsa tutta, costeggiando il Municipio e il Teatro d’Opera con la statua di Molière. Superando la contorta strettoia di una viuzza, eccoci nell’imponente foro pontificio. Una scalinata ci ha condotti al portale a sesto acuto dell’ingresso, sovrastato dallo scudo papale in pietra. Abbiamo preso i biglietti nell’atrio. Siamo entrati. Il chiostro dai massicci archi acuti, con l’erbosa superficie centrale più alta dei corridoi. La cappella, splendidamente affrescata dal trecentista senese Matteo Giovannetti.

I modellini in legno che consentono di ricostruire nell’immaginazione l’aspetto originario dell’insieme. Secondo la didascalia, si tratta del più grande palazzo gotico al mondo, con 15.000 m2 di superficie, ma fu ultimato in soli vent’anni. Un ampissimo salone per banchetti.

Si sale ai piani superiori. Dalle vetrate si può osservare il giardino. Anche quassù, nella camera per le udienze e nel Santo Studio, residui di affreschi d’epoca. Statue a dimensione naturale, in piedi o coricate, in quanto coperture di cenotafi. Un duplice portale con fioriture gotiche da cui si accede alla Grande Chapelle, che presenta volte a crociera, a sesto acuto.

Dal terrazzo abbiamo fotografato la vicina Cattedrale: una madonnina dorata in cima alla torre campanaria, come per il duomo di Milano o la chiesa di San Bernardino, a Tortona. Mi è venuto da cantare “O mia bèla Madunina…”, in versione francese: “O ma jolie petite vierge…”. La chiesa madre l’abbiamo visitata subito dopo. Passato il massiccio nartece, abbiamo percorso la navata di archi robusti, istoriati con una densità quasi barocca, fino all’abside a sesto acuto.
2) La donna sarebbe poi diventata mia moglie, l’uomo un “emblema della condizione umana”…
3) In effetti, anche il Jardim do Morro, a Vila Nova de Gaia (di fronte a Porto, sulla sponda sud del Douro), è stato progettato così.
Quindicesima parte – segue.
Marco Grassano
Foto di Marco ed Ester M. Grassano
Didascalie:
- Il Municipio
- Verso il Palazzo dei Papi
- Il Palazzo dei Papi
- Il ponte di St Bénézet
- La cappella di Saint Nicolas
- Salendo al Rocher des Doms
- Guardando verso il Mont Ventoux
- Vicoli e teatro
- Gli affreschi del Palazzo
- Modellini del Palazzo
- La Cattedrale