Quattordicesima puntata del reportage di Marco Grassano “Ritorno a Chanià”.
Il cameriere “casalese” Andrea aveva dunque ragione: quando, prima di andare a prendere l’autobus, mi affaccio al porto, le onde, aizzate dalla tramontana, stanno ribollendo rabbiose. All’esterno della diga, biancheggiano di gonfie spume. Ogni tanto, con periodicità imprevedibile, tracimano sulla banchina e vi abbandonano detriti. La luce e i colori paiono quelli di un inverno veneziano dipinto dal Canaletto. Poco dopo, nell’etere fosco si accende un fugace arcobaleno.

L’itinerario della vettura (snodata) è, per un buon tratto, quello della mia escursione a Galatàs. Al bivio dove avevo seguito il rebbio sinistro continuiamo dritti. L’aspetto urbano è sempre quello di una periferia leggera, fatta di basse costruzioni squadrate. Iniziamo a costeggiare la marina, schiumosa e livida.
Tagliamo un promontorio e torniamo sulla litoranea, che verso terra si presenta edificata. Compare, a destra, un isolotto, velato dal maltempo. Gli stabili cessano in prossimità di un piccolo capo roccioso. Lo doppiamo. Spiagge e qualche struttura ricreativa. Riprende il caseggiato: bilaterale, a grana dapprima grossa, poi più minuta e costante. Il ragazzo che funge da controllore mi segnala la fermata di Plataniàs centro, cui gli avevo anticipato di voler scendere.
Ho in programma di visitare la parte alta del borgo. Un vicolo sale subito di fronte. Comincio a percorrerlo. L’acquerugiola si è fatta molesta, ma fortunatamente sono ben protetto. Arrivato all’altezza del verosimile asilo (i Puffi e le loro casettine fungose ne decorano la facciata), sospetto di non aver scelto l’itinerario giusto. Torno, allora, sui miei passi e seguo la via principale – di fatto, un’Aurelia cretese – in direzione Est.

Raggiungo quasi subito la piazza, individuata, prima di partire, su Google Maps. Mi ricordo, così, che la strada per il nucleo abitativo originario inizia poco oltre. La trovo. La imbocco. Va su abbastanza decisa, tra fabbricati recenti a bieca destinazione turistica: per lo più attività culinarie, di svariata natura e provenienza, ma anche prodotti tipici, alloggi in affitto, attrezzi e indumenti per lo sport, centri di bellezza… Non so se queste oscenità siano davvero più laide delle corrispondenti italiane, come sosteneva l’anziana ebrea di Monaco. Certo, la scelta è difficile.
Un carrubo, col piede bianco di calce, presidia l’accesso al centro storico. Sto cercando qualche specola da cui fotografare il mare. Compio diversi tentativi infruttuosi. Alla fine, mi inerpico lungo una rampa e mi introduco in un esiguo slargo dalla pavimentazione sconnessa. Gradini montano nella parete di sinistra, in cima alla quale svettano tondini metallici, come se la ristrutturazione dell’edificio non fosse ultimata.
Scosto una lamiera flessibile, assicurata a uno solo degli stipiti del passaggio. Mi dà la stessa sensazione di incompiuto. Giungo su una terrazza ancor priva di ringhiera, dove vengo investito da una folata poderosa, continua, che mi scaglia addosso gocce aguzze e mi fa quasi sbandare. Da quassù riesco però a riprendere la marina: trascolorante dal largo verso terra e in un furioso tumulto che la fa sembrare avventarsi contro il villaggio sottano.
Tornato dabbasso, un apparente vecchio, che esce da una sorta di piccola rimessa, mi domanda, in greco, dove devo andare. Gli rispondo che sto cercando il “Museum… mussìo…”. “To polemikò mussìo? Ton Germaniòn?”. Gli replico affermativamente: “Ne!”. Allora mi addita l’erta che ho da poco affrontato: devo ridiscenderla e proseguire nella viuzza di fronte, “Mèchri tin ekklisìa…”.
Obbedisco. Percorro il ristretto calle, lastricato di autobloccanti che vogliono richiamare, nella forma, i cubetti di porfido. Casette bianche o color nocciola: alcune di discutibile stampo “geometrile”, mentre le altre, seppure a tratti un po’ sbrecciate, hanno mantenuto la gradevole morbidezza di linee dell’edilizia di una volta.
Sfocio in una piazzuola. La chiesetta candida è di fronte a me. Mi rivolgo a un uomo e a una ragazzina che armeggiano poco distante. Parlano un po’ di inglese. Mi indicano alcuni cartelli, più in là: che segnalano, in effetti, la direzione del “museo-rifugio”, ma in modo così vago che non capisco bene dove si trovi veramente.

Visito in fretta l’ampio sagrato e il cimitero, lucidi di pioggia, poi torno sul lato sud-ovest. Noto, all’aperto, un cannoncino antiaereo, una jeep, un cannone – grigio, questo – di calibro maggiore, due piccole boe bianche. Alla fine, capisco che all’allestimento si accede da un passaggio infossantesi in direzione della chiesa. Dato il periodo dell’anno, non è tuttavia aperto, essendo per di più gestito da volontari. Raccolgo un pieghevole e scatto qualche foto.

L’opuscolo informa che il rifugio di guerra sotterraneo venne costruito dai tedeschi nel 1942, impiegando manodopera locale precettata. Dopo la fine del conflitto, fu usato dai residenti come cantina, per la temperatura costantemente fresca delle gallerie. Nel 2013, si è deciso di insediarvi il piccolo museo sulla Seconda Guerra Mondiale, in ricordo della Battaglia di Creta.
Rifaccio il percorso che declina all’abitato inferiore. Giunto al carrubo, ritrovo il padre e la ragazzina che mi avevano aiutato, venuti in macchina per qualche incombenza. Li informo che purtroppo, essendo inverno, ho giustamente trovato chiuso, e li saluto sorridendo.
Aspetto l’autobus in piazza, sotto la pensilina della fermata per la direzione Chanià. La precipitazione rinforza. Mi sposto allora al riparo della tettoia sul fondo, di fronte a un negozio con le serrande tristemente abbassate. Cade, all’improvviso, uno sgrondo violento, che per fortuna smette presto, lasciando luogo alla pioviggine iniziale. Salgo sul mezzo e rientro in città.

Nella darsena, l’acqua continua a schiumare e a riversarsi sui pontili. Le impennate dei marosi hanno intriso l’atmosfera di una caligine grigiastra, che avvolge e appanna i contorni. Mi viene in mente l’attacco del romanzo di Zorba: “Pioveva. Soffiava un forte scirocco, e gli spruzzi del mare arrivavano fino alla piccola taverna. Le porte a vetro erano chiuse…”.
“Tì krìo!” (Che freddo!) commenterà stasera, all’Argo, la signora Rula.
Puntata 14 – segue.
Marco Grassano