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Voi siete qui: Europa » Ritorno a Chanià: cena al ristorante “Kàvouras”

29 Gennaio 2022

Ritorno a Chanià: cena al ristorante “Kàvouras”

Quinta puntata del reportage di Marco Grassano “Ritorno a Chanià”.

Usciti dalla sinagoga di Chanià, raggiungiamo il “Κάβουρας μεζεδοπωλείο” (Kàvouras mezedopolìo, un po’ come dire “Osteria del Granchio”), nella schiera di bar con terrazza prima della Moschea. Esibiamo, per il controllo, il green pass e ci posizioniamo attorno a uno dei tavoli. Pannelli di plastica trasparente ci riparano dal fresco della banchina.

Ordiniamo una caraffa di vino rosso. Andrea, il cameriere che ci serve, ci domanda di dove siamo. Alla mia risposta, scambiamo qualche battuta in italiano, che parla ottimamente perché ha lavorato dieci anni da noi. Nota il mio accento settentrionale, e mi chiede di quale città. Mi ribatte, con entusiasmo, che sette dei dieci anni li ha trascorsi a Casale Monferrato, in un ristorante a poca distanza dalla Sinagoga. “Ah beh…” concludo io.

Ricordi di guerra

La donna accompagnata dal marito è austriaca, anche se nata nel Nord della Germania, dove il padre era stato inviato a lavorare – dopo l’Anschluss – per la sua elevata professionalità, che accantonava il problema della confessione religiosa. Angelica (pronunciato con la “g” dura), invece, è di Monaco. È figlia di un farmacista. Anche lui fu precettato benché israelita: come ufficiale, nell’esercito del Reich, perché, durante la guerra, c’era estremo bisogno di addetti alle professioni sanitarie. Paradossalmente, alla fine del conflitto venne rinchiuso in un campo di prigionia, essendo considerato, come molti altri, un collaborazionista. Per fortuna, tutto fu poi chiarito. Entrambe le famiglie (pure Angelica è sposata, ma oggi il marito non è potuto intervenire) trascorrono parte dell’anno a Chanià, per ragioni climatiche.

Apprendendo che ho una figlia di nome Ester, mi scambiano per un correligionario. Osservo che qualche retaggio potrei effettivamente averlo: nel paesino di origine di mio nonno materno, c’è un rione denominato “Contrada degli ebrei”.

Conoscono bene anche l’Italia, dove sono venuti in vacanza per decenni (Liguria, Veneto, Lombardia, Toscana, Campania…). Ritengono (e mi sento di condividere la loro opinione) che i pregi archeologici, architettonici e paesaggistici di Creta siano belli quanto i nostri, mentre le brutture – per esempio, gli scempi edilizi – sono qui decisamente più brutte.

Conversiamo su diversi argomenti. Commentiamo la canzone di Leonard Cohen You want it darker, che apre il suo ultimo disco; vi partecipa il coro della sinagoga di Montreal, e vi viene ripetuta l’invocazione biblica “Hineni”: eccomi, Signore, sono pronto. Il rabbino e i tre fedeli, che si proclamano “non integralisti” (peraltro, me lo hanno appena dimostrato…), riconoscono e apprezzano l’ecumenicità dell’attuale Pontefice. Osservo che Papa Francesco appartiene alla Compagnia di Gesù, da sempre la parte di Chiesa cattolica più aperta e rispettosa nei confronti degli “altri”. Per esempio, il gesuita luso-brasiliano Padre António Vieira (definito da Pessoa “Imperatore della lingua portoghese” e considerato un maestro di stile anche da Saramago) scrisse, nel Seicento, energici libelli a difesa degli Indios e degli Ebrei, col rischio non trascurabile di suscitare il pericoloso interesse dell’Inquisizione.

Passa il trenino

Sono tornato qui, a cena, il sabato, prima dello spettacolo cui volevo assistere nel vicino Teatro Theodorakis. Mi ha fatto accomodare un altro cameriere, che parlava anche lui italiano. Mi ha detto di chiamarsi Leonardo e di essere il fratello di Andrea. Mentre assaporavo, con lenta calma, la mia ricca e complessa insalata cretese, ho udito un sonoro scampanellio, che ho preso per l’annuncio di qualche funzione religiosa. In realtà, si trattava del trenino: stantuffando e fischiando, partiva dalla spianata della Moschea e si insinuava, carico di bimbi festanti, nei vicoli portuali.

Trenino per i bambini a Chanià (Creta)

Ci ceno ancora qualche giorno dopo, ordinando, stavolta, un copioso fritto misto di pesce, sormontato da un tentacolo di polpo. Alcuni gatti offrono uno spettacolo che mi commuove. Gestori e camerieri sembrano lasciarli entrare liberamente, tollerarli bene. O almeno, questo succede qui: negli altri locali, non so. Magari, ognuno ha i propri mici abitudinari. Ti si accosciano accanto e ti osservano con sguardo attento o implorante (a volte, alzano verso la tua mano una zampa amichevole), per chiedere cibo.

Ecco la coppia rappresentata da una gattina tricolore e da un grosso bardo (1). Mi si collocano man mano attorno secondo una gerarchia che si viene delineando: chi si trova più vicino tiene la posizione, mentre l’altro animale rimane discosto, in secondo piano, per esempio sotto la sedia del tavolino di fianco, ma continua a osservarti supplichevole e ad aspettare. Afferrano i bocconi appena glieli getti, e li divorano avidamente, poi riprendono a fissarti. Quando questi due sono probabilmente sazi – prima di mangiare l’ultimo gamberetto elargito, lo fanno saltare con la zampa, come fosse un giocattolo, poi prendono a leccarsi tutti e quindi se ne vanno – subentra un nuovo gatto dal muso mascherato, con una chiazza sotto la narice destra, come la Pellina che abbiamo adottato a Dernice.

I due fratelli mi presentano il proprietario, Antonis, definendolo “il miglior padrone del mondo” (“O megàlos proistàmenos”, aggiungo io in greco, sorprendendoli, e lui, nella mia lingua: “Capo dei Capi”).

Il vento del Nord si fa impetuoso. Gli uomini cominciano a sbaraccare la terrazza. “È incredibile come il tempo può cambiare nel giro di mezz’ora. Stanotte le onde arriveranno a spazzare la banchina” mi dice Andrea – e ci ha visto giusto.

Nota 1: So che l’espressione “gatto bardo” per indicare i colori del soriano (“aggiunto di color bigio e linato, serpato di nero”) è un genovesismo, ma mi costa rinunciarvi…

Puntata 5 – segue.

Marco Grassano

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