Sesta puntata del reportage di Marco Grassano “Ritorno a Chanià”.
Una delle principali ragioni per cui sono venuto a Chanià è rendere omaggio a Mikis Theodorakis, visitandone la tomba e la casa paterna nel vicino villaggio di Galatàs.
Passando davanti alla Cattedrale, noto che vi è in corso una cerimonia funebre. Mi soffermo qualche minuto a osservarla. Il coperchio della bara è rimasto fuori, a destra del portone centrale, in piedi contro il muro. All’interno, i partecipanti sfilano silenziosi di fronte al corpo, rivolgendogli lenti cenni di deferenza, mentre i religiosi cantano e salmodiano. Sul sagrato, camerieri allestiscono un piccolo rinfresco di cibi e bevande, quasi si trattasse di un battesimo o di un matrimonio. Forse, nella concezione ortodossa anche la morte è giudicata occasione di letizia.

Seguo il percorso che mi ero studiato a casa. Al termine della Chalidon, prendo a dritta, in direzione della farmacia. La raggiungo e la supero. Constato che, nel giro di poche centinaia di metri, ve ne sono altre quattro. D’altronde, una l’avevo rilevata subito dopo la piazza della fontana, una nella viuzza che conduce al Mercato, una all’interno dello stesso e una di fronte alla sua uscita sud… Sembra ci siano in giro più farmacie che negozi di alimentari, e non riesco proprio a spiegarmene il motivo (Nota 1).
La strada, come previsto, compie una curva. L’aspetto complessivo insolito, un po’ sciatto – facciate, angoli, vetrine, marciapiedi, veicoli in sosta, passanti – mi ridesta, dopo decenni, la medesima sensazione di “altrove” che avvertivo in Spagna negli anni Ottanta: una sensazione piacevole, devo dire, al contempo straniante e festosa.
Cammino sempre dritto. Al primo grande incrocio, dopo aver chiesto conferma nella rivendita di articoli idraulici che trovo sulla destra (quanta fatica non saper parlare la lingua del posto!), mantengo la direzione Plataniàs.
Il tessuto urbano si dirada, ma le costruzioni bilaterali non cessano di susseguirsi. Un parcheggio di autobus articolati. Lunga e lieve salita. Poi il percorso divalla altrettanto dolcemente. A un semaforo decolla, verso sinistra, una diramazione. Dovrebbe essere quella giusta, sebbene non vi siano segnali a suffragarlo. La imbocco. Arrivo a un bivio. Stagliate contro un muretto a calce, le indicazioni per Daratsos (a sinistra) e Galatàs (a destra – ossia, avanti). Proseguo. In cima a un dislivello, un uomo sta brutalmente capitozzando, con la motosega, una siepe di alti cipressi (tornando, lo vedrò ancora in energica azione).
Fuoriesco in una semi-campagna collinare. Un edificio – circondato da un parcheggio – sulla cui facciata spicca la scritta Δημαρχείο (Dimarchìo, “Municipio”) e sventola la bandiera ellenica. Un incrocio, nel quale mi tocca andare per esclusione (sappiamo già che Daratsos non è la mia meta…). Per fortuna, pochi metri oltre trovo la freccia che menziona Galatàs: verso destra, in salita. Da questa postazione, scatto una foto al paesaggio ondulato e verdeggiante e alle montagne che emergono sullo sfondo, livide, spruzzate di bianco. Raggiungo in fretta un abitato senza cartello di località. Una chiesetta d’angolo; di fronte, l’indicazione nera su bianco, collocata da poco, Κοιμητήριο Γαλατά (Kimitìrio Galatà). Ci sono quasi.

La stradina mi ricorda vagamente (malconci capanni con attrezzi e legna da ardere…) quella che, lasciandosi indietro il borgo, sale al cimitero di Dernice e alla Costa. L’unico elemento bizzarro – ma il Servizio Postale ha qui modalità operative del tutto particolari – è l’aver compattato in un parallelepipedo blu, a bordo strada, le buche per lettere dell’intero rione.
Fichi, qualche fico d’India e tanti ulivi. Un fondale di successive creste montuose. Compare il basso recinto imbiancato a calce, sul cui cancello aperto incombono alberi fronzuti. All’interno, non vi sono edicole funerarie, ma tutte tombe al suolo, massicce di marmi e pietra. Quella del Maestro la trovo subito, lungo il camminamento principale, di fronte a una cappella votiva (destinata, presumo, alla benedizione dei feretri). Reca il solo nome, inciso nel cippo soprastante. Dentro le due cavità laterali, ciottoli candidi. Qualche vaso di succulente e sempreverdi. Mazzetti di fiori depositati sulla lapide. Arance mature, cadute dai rami sporgenti della vicina pianta, carica di frutti. Ne colgo uno, per ricordo.

Rimango alcuni istanti in immobile, assorto silenzio, poi mi avvio all’uscita. Accoccolato sull’ultima sepoltura a destra, con gli occhi socchiusi, un gattone bianco e tigrato di grigio mi indirizza un miagolio di saluto.
Essendo così carente la segnaletica, non ho ben chiaro dove si trovi il centro del paese. Vado avanti fino a una strada parecchio trafficata. La attraverso con estrema cautela. Raggiungo una stazione di rifornimento, circondata da capannoni artigianali. Mi rivolgo a un anziano appena sceso dalla macchina. Mi risponde in un tedesco che in qualche modo riesco a comprendere (forse, è un emigrante rimpatriato), dicendomi che devo tornare indietro. Lo faccio. Mi imbatto in un tizio più giovane, intento a dispiegare le reti per la raccolta delle olive. Domando anche a lui. Mi fa segno di svoltare a destra in fondo alla straducola: decisamente rurale, coi suoi ulivi, cespugli e canne. Non è che quella in cui mi immetto si presenti molto meglio, almeno all’inizio; ma poi ecco comparire qualche magazzino e quindi, gradualmente, le case – un po’ come in certe frazioni della Val Cerrina, soltanto che quaggiù gli edifici sono bianchi.
Arrivo nel centro più o meno storico, somigliante stavolta alla Val Curone – a un posto tipo Montecapraro, diciamo. L’indicazione stradale per Chanià, che al momento non seguo. Interpello, subito dopo, due casalinghe dirimpettaie in amena chiacchierata, ognuna al proprio balcone. Vorrei sapere dove si trova la casa di Mikis Theodorakis (Pu ine to spiti tu Mikis Theodorakis). Mi parla la donna alla mia destra, scandendo bene: “Σε εκατό μέτρα, θα δεις μαγαζί; ρώτα εκεί” (“Se ekató métra, tha dis magazí; róta ekí”). Intuisco che fra un centinaio di metri troverò un negozio presso il quale informarmi.
Una chiesuola, il cui ridotto sagrato, chiuso da una recinzione, è pieno di gatti. Sfocio nella piazza di Agios Nikòlaos, teatro dell’ultimo (o del penultimo, se consideriamo la benedizione della cassa al cimitero) saluto religioso al compositore. Trovo la bottega di alimentari; interrogo la coppia di giovani gestori, intenti a sistemare la merce; mi rispondono che, partendo dalla chiesa, devo solo seguire le frecce.
In effetti, stavolta non è possibile sbagliare. Assecondo, per un tratto, la fila delle abitazioni. Mi infilo, a destra, in un vicolo acclive, dall’aspetto andaluso. Svolto poi a sinistra, nel viottolo che domina un’ariosa porzione di paesaggio e al cui termine mi fermo di fronte allo squadrato e oblungo edificio color nocciola, avvolto dagli alberi e presidiato dal vessillo nazionale. Al cancelletto – chiuso – sono appesi piccoli omaggi di stoffa, oltre a messaggi scritti a mano, per me indecifrabili. Con l’eccezione di uno, tuttavia: il foglio grande col quale il Παιδικός Σταθμός (Pedikòs Stathmòs, cioè Asilo Infantile) Νέας Κυδωνίας Γαλατάς (Nèas Kidonìas Galatàs) si rivolge al musicista “Με άπειρη ευγνωμοσύνη” (Me ápiri evghnomosíni, ossia Con infinita gratitudine), citando il famoso verso iniziale dell’altrettanto celebre inno dell’Àxion estì che persino io conosco da più di vent’anni: “Ένα το χελιδόνι – κι η Άνοιξη ακριβή” (Éna to chelidóni – ki i Ánixi akriví, vale a dire: Una la rondine – e la Primavera costosa).

Ho compiuto il mio pellegrinaggio; ora posso rientrare alla base. Vado a imboccare la via per la città, individuata prima. Immortalo, di passaggio, qualche esotica casupola passata a calce o un’apertura nello zoccolo di edifici.
Transito di fronte all’Asilo Infantile, dichiaratosi così riconoscente (le insegnanti, più che i bambini, temo). Avvicinandomi alla chiesetta angolare dalla quale mi ero inizialmente inerpicato verso il Cimitero (un addetto sta ora potando i due alberi che la fronteggiano), colgo con stupore la mirifica visione della baia di Chanià e della penisola di Stavròs. Venendo, l’avevo alle spalle, e non potevo certo immaginare…
Nota 1: Secondo Ghiorgos, il taverniere, il fenomeno è dovuto in parte alla mancanza di un contingentamento delle licenze, e in parte al fatto che in farmacia si vendano anche olii e creme solari e tanti altri prodotti a uso dei turisti, che ne costituiscono così la principale clientela.
Puntata 6 – segue.
Marco Grassano