L’editore Meltemi è solito pubblicare libri assai opportuni come tematica, densi e profondi nelle riflessioni, e in più ottimamente scritti, da autori “di livello”. Penso per esempio, attingendo alle mie esperienze di vita, a Wim Wenders (regista che mi ha grandemente segnato, fin da Paris Texas), oppure, per associazione col suo mitico film Lisbon Story, a tre pilastri del pensiero di lingua portoghese: José Luandino Vieira, António Sérgio e Eduardo Lourenço.
Non fa eccezione Landness – Una storia geoanarchica, dell’antropologo e geografo Matteo Meschiari.

Nella Nota iniziale, Meschiari rievoca le passeggiate di quando era bambino e il padre, tenendolo per mano, gli raccontava senza soluzione di continuità le vicende dell’Odissea e la Storia naturale della Terra. Questo connubio – o intreccio – di scienza e mitologia (o magari mitopoiesi) rappresenta il comune denominatore tra le cinque parti in cui è suddiviso il presente volume: Prigioni, Nei paesaggi, Il libro di un’isola, Torbiera, Antropocene decadence.
Lungo le pagine vengono più volte citati autori che ne costituiscono i principali punti di riferimento. Alcuni di loro rientrano anche nel mio bagaglio culturale, cosa che mi permette di meglio inquadrare tali richiami. Kenneth White, scozzese radicato in Francia, fondatore dell’Istituto Internazionale di Geopoetica, del quale avevo tradotto qualche testo critico (per il sito internet multilingue www.institut-geopoetique.org) e recensito un paio di narrazioni di viaggio. Francesco Biamonti, che mi aveva guidato, con la sua prosa immaginifica, lungo i paesaggi della Provenza e dell’estremo Ponente imperiese. Seamus Heaney, che ha riempito di versi dal lessico minuzioso un mio recente viaggio in Frisia.
Imprendendo la lettura, facciamo subito conoscenza con alcuni anarchici ottocenteschi (il francese Élisée Reclus, il russo Pëtr Kropotkin, lo svizzero ticinese Mosè Bertoni) che hanno percorso e indagato il globo, portandovi a spasso avventure e utopie e ricavandone materia per le proprie pubblicazioni (soli elementi ad aver tramandato la loro memoria).
Citandone diffusamente magnifici brani descrittivi, l’autore giunge però a una conclusione di bruciante attualità:
Immaginare (…) i migranti climatici di allora e di oggi, l’oceano dei demoni come una lastra di platino, il tempo biologico che incalza per tutti, immaginare insomma milioni di vite individuali appese a un ‘se’ e a un ‘ma quando?’, mi fa pensare in fondo che l’utopia geoanarchica, la landness, l’Antropocene manifesto sono quanto di più lontano dall’etica neoliberista del fallimento: fallisci, fallisci meglio, rialzati. E invece l’alternativa antropologica incistata nella Terra, una terra aliena e incoercibile, piena di lotta e miseria, è quella entropica dei vinti che, tuttavia, per una qualche ragione ormai smarcata dalla speranza, portano avanti una bandiera negata”.
E più avanti: “Che cosa significa, per un titano dai piedi di argilla, non portare a termine la propria opera? Che senso dare al volo rapidissimo di una vita che, giungendo al termine, svela l’inconsistenza degli sforzi, la vanità del volere?” (par quasi di cogliere un’eco di Franco Battiato: “la vita e il suo veloce volo”).
Transitando dal paesino dei nonni, sull’Appennino modenese (con una commovente descrizione della vecchietta, giunta agli estremi lembi della propria esistenza: “mangiava pasticcini uno dietro l’altro, come una bambina, lo sguardo appannato, la faccia così magra, svuotata, e quell’inutile golosità di vita, ancora così forte e cieca da farle cercare un boccone dopo l’altro il fondo dolce di un vassoio semivuoto”), Meschiari ci conduce fino ad Athens, Georgia, profondo Sud degli Stati Uniti, nello studio del Nature writer James Kilgo (che non conoscevo: ma, per rimediare, ne ho ordinato l’ultima opera portata a termine, “un libro luminosissimo, Colors of Africa, con la sua potenza e la sua carica visionaria”).
Lì, fra le carte dello scrittore, purtroppo scomparso da tempo per un cancro alla prostata, ci fa comprendere come questi praticasse il proprio lavoro – un lento, graduale trasfondere nella versione definitiva gli appunti di diario, “Quelle pagine scritte a mano, così vivide, così in presa diretta sulle luci di un giorno che è esistito davvero e che non potrà ripetersi mai più, sui pensieri di un uomo che si aggrappa alla scrittura per combattere la paura della fine, sulle descrizioni misurate, esatte, visibili delle terre e delle acque…”.
Kilgo aveva un senso poetico e “animista” della Storia. E lo comprendo: nei luoghi più carichi di passato (alle rovine minoiche di Creta o ai templi neolitici di Malta, per esempio), ho avvertito anch’io, come una risonanza, la loro profondità cronologica, “un passaggio tra mondi lontani nel tempo attraverso un paesaggio che funziona da cerniera”.
Meschiari si concede qui qualche suggestione coheniana (“la luce che scivolava calda come miele sulle travi lucide” fa pensare al verso “the sun pours down like honey on our lady of the harbour” della celeberrima Suzanne, a sua volta esemplato su un distico di Nikos Kazantzakis, che il Maestro canadese all’epoca leggeva sull’isola greca di Hydra: “in silence, the archer felt the sun like honey pour / along his naked hairy chest”), o magari un ammiccamento a Manhattan, di Woody Allen (“sono decine gli incipit abbandonati…”).
Sorvoliamo poi la favolosa torbiera irlandese del pure scomparso Seamus Heaney, per approdare nell’atelier armoricano di Kenneth White (che è invece ancora vivo e attivo). Ci viene presentato il “geopoeta” scoto-francese mentre “tiene in pugno un sasso e mi parla. Lo guarda, lo gira, mi fa vedere una vena di quarzo, un foro, e aggiunge che quello che lui vuole fare in poesia è qualcosa di equivalente a quel sasso. Una complessità sincronica e diacronica che diventa una forma sola, compatta o fessurata (…) Si tratta di fare ciò che il sasso ha fatto: raccogliere materiale, metterlo in un unico spazio, renderlo dinamico, e dargli forma attraverso una grande energia”.
E torniamo sull’Appenino settentrionale, “che è un nocciolo refrattario alle produzioni dell’immaginario, funziona cioè come un ingombro geografico, grigio, opaco (…), una terra che, pensando alla letteratura, alla traduzione verbale del mondo, viene sbirciata quasi sempre da lontano”. Se si escludono le poesie di Attilio Bertolucci (peraltro, l’autore qui non lo menziona, ma lui la tematica l’ha trattata fin dai versi adolescenziali: “Gioventù sacrificata / delle ginestre, / grama e splendente / per le pendici d’Appennino. / Vento e luce / ti nutrono. / Solitudine t’adorna.”), ci si trova davvero di fronte a un non-luogo letterario, uno spazio dimenticato, ignorato, di cui si potrebbe dire, come per l’Africa delle carte antiche, “hic sunt leones”.
È mancato, da queste parti, l’equivalente di ciò che Mario Rigoni Stern ha costituito per le Alpi. Qui il paesaggio è ancora tutto da scrivere. Queste valli malinconiche, spesso cupe anche in piena estate, che non offrono alla vista aperture di spazio se non sul filo dei crinali e che paiono non condurre a niente, potrebbero però, a mio avviso, dar luogo a una forma di espressione nuova, estrema ed elevata. Come osserva Meschiari, “Credo che comprendere il valore della fine sia la forma più alta di poesia. Non ha a che fare con la misura, ma con il rendere di nuovo al nulla quello che dal nulla è venuto”.
Altro luogo da visitare è l’isola di Lèvanzo, la più piccola (e la meno biecamente turistizzata) delle Egadi, “un nulla selvaggio privo di glamour e di strutture ricettive” in cui è tuttavia possibile osservare una grotta decorata con “le immagini, l’Arte (se volete chiamarla così), le pitture in grasso animale e carbone che rappresentano silhouette femminili, tonni, delfini, oranti, mascheroni, esseri imprecisati saltati fuori dalla testa di qualche uomo o qualche donna di 8.000 anni fa”.
All’altro capo – non solo cronologico – delle tracce lasciate sul Pianeta dalla presenza umana (proprio in questo senso si usa, oggi, l’espressione Antropocene) si collocano i resti di un’archeologia industriale che pare trasportarci sulla scena apocalittica del film Stalker, di Andreij Tarkovskij. Eppure, anche da queste immagini di estrema desolazione è possibile trarre un senso (o, come dice più filosoficamente l’autore, “ricavare una misteriosa semiotica delle rovine”).
Nella pellicola russa, mi aveva toccato quel che replicava, piangendo, il “passeur” (questa è la connotazione un po’ biamontiana, nel titolo, del termine inglese, il cui senso originario è ormai obliterato da quello comune di “persecutore affettivo”) di fronte alla proposta di distruggere la “Zona” vietata nella quale egli accompagnava clandestinamente, per mestiere, i visitatori: “La Zona è tutto quello che ho… la sola cosa che mi è rimasta…”. Senza la “Zona” grazie alla quale lavorava, la sua vita avrebbe perso ogni significato.
Ci sarebbe tantissimo altro da dire, ma la recensione rischierebbe di essere lunga quanto il libro. Dagli excerpta che ho inserito, i lettori si saranno fatti un’idea dello stile di Meschiari. Concludo pertanto con una piccola notazione di natura pressoché statistica. L’autore mostra di avere una particolare predilezione per il sostantivo “svernamento” e per il verbo “svernare”, variamente coniugato; nel solo capitolo 5 dalla parte IV se ne riscontrano ben dieci occorrenze. Non ne deduco nulla, mi limito a rilevarlo…
Buona lettura a tutti, dunque. Senza mai dimenticare che, come già per lo Stalker di Tarkovskij, “la Terra, la Terra che stiamo distruggendo, siamo noi”.
Marco Grassano
Matteo Meschiari
Landness
Una storia geoanarchica
Meltemi
Collana Atlantide
2022, 240 pagine
20 €