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Voi siete qui: Europa » Ricordo di un incontro con Biamonti sulla via per la Provenza

22 Agosto 2020 Scritto da Marco Grassano

Ricordo di un incontro con Biamonti sulla via per la Provenza

Con questa prima puntata iniziamo la pubblicazione di un reportage di Marco Grassano sulla Provenza. Il viaggio risale al 1998, mentre è di oggi la completa riscrittura del reportage.

Lunga pazienza, ricerca e attesa della ‘parola giusta’ che restituisca agli incontri, alle voci, ai paesaggi, alle strade la loro originaria freschezza e i contorni precisi che avevamo percepito. Lavoro da forzati, poiché si tratta di rendere con un vocabolario opaco, pesante, incompleto ciò che era stato avvertito come leggerezza ariosa, trasparenza e misteriosa polifonia. Ma è il nostro mestiere, e ce lo siamo scelti noi.”

(Nicolas Bouvier)

Strisce orizzontali di nubi rosacee si compattano in un più ampio cumulo violetto sopra l’orizzonte mosso dei colli boscati, quasi a impastarvi i due poli cromatici della cartina al tornasole. A sinistra, la luna brilla pura e sola nel cielo ancor chiaro, con la gobba rivolta a levante. Fra gli alberi, rapidamente infoschiti, un intenso gemito di zanzare, che però non paiono intenzionate a pungere. Tra il cortile e il cancello, il duplice, continuo ruscellare di scaturigini d’acqua.

Poco dopo, ecco attaccare il gracidio stereofonico e sovrapposto delle rane, che emergono circospette dal fondale verdastro della vasca. Con l’intensificarsi del buio, nella valle-altopiano fra il castello e la cresta di colline, oltre lo schieramento compatto e frastagliato dei neri cipressi frangivento, si evidenziano, sfavillando come monili, alcune sparse luci. Una, quasi al centro, di fronte a me, più intensa e sfaccettata, si rivelerà domani una fattoria indorata dal sole del mattino (Hostellerie Domaine de la Reynaude). Le altre sono solo puntini flebili e remoti.

Paesaggio dietro il Castello del Petit Sonnailler

Ora è giorno da un pezzo. La nebbia dilaga sui vigneti, precipitando, spumosa come una cateratta vaporizzata dall’urto con le rocce, attraverso il varco più a destra dei due che si aprono, quali curvi cedimenti, nella linea collinare. Poi gonfia e ribolle lontana, dietro l’orizzonte dei poggi, fino a nascondere il disco solare – sospeso, immobile, nel mezzo – in un turbinio di fitte particelle incandescenti. Si espande e si innalza a destra, verso il sole fosforeo di giugno, come il fumo di un’esplosione, dando alle cose un’opacità luminosa, una lattescenza dalla quale emerge solo la punta del colle più alto… ma anch’essa viene progressivamente sommersa.

Poi la nube nebbiosa di destra si sposta verso il centro, si smorza, si scioglie ovunque, e la cima torna gradualmente a emergere. I contorni della vallata e delle colline riappaiono, si fanno più nitidi, mantenendo soltanto uno sparso e tenue velo di caligine lievemente attorta in lente volute.

Le Petit Sonnailler

Siamo al castello Le Petit Sonnailler, tra Aurons e Vernègues, a pochi chilometri da Salon de Provence. Ci siamo capitati per caso, nel viaggio di ritorno dal Lot-et-Garonne, salendo fra cerulee distese di ulivi che si frangevano contro aspre rocce impiumate di verde. Cercavamo un posto per trascorrere la notte, verso l’interno della Provenza, lontano dalle coste troppo turistiche.

Castello del Petit Sonnailler ad Aurons (Provenza)

Si tratta di un edificio in pietra: austero, quasi arcigno se visto dal di fuori (con la sua torre di vedetta risalente al XII secolo, scavata da una scala elicoidale a gradini di sasso smussato), ma piacevolmente arcaico, all’interno, di mobili d’epoca, dotato di tutte le comodità e intensamente aromatizzato da una profusione di fruttati petali secchi, disposti, un po’ dovunque, in generosi pots pourris.

È sede di un’azienda vitivinicola, che produce e vende un pregiato rosé dei côteaux di Aix-en-Provence, ma anche del rosso e del bianco deliziosi. Nel cortile, chiuso da alte pareti, sorgono un portico, un antico abbeveratoio dall’esiguo zampillo e un corpo di edificio, addossato alla torre, nel quale si apre il portoncino di accesso alla fresca cantina delle degustazioni. “Vente au caveau”, dice un cartello.

Ragnatele cotonose in un bosco della Provenza

Le massicce mura ingenerano negli ospiti un senso di protettiva sicurezza. I clienti che lo vogliono possono godere di qualche giorno di riposo, alloggiando in una delle stanze solenni e compiendo, fra i boschi circostanti, lunghe passeggiate, che si prolungano fino a Salon de Provence. Seguendo gli scabri sentieri, altalenanti tra le pieghe dell’altopiano e nebulosamente chiazzati, sui bordi, dalle garze cotonose delle ragnatele, si avanza tra profumi di resina, di spigo, di rosmarino, di cisto, di lentisco, di altre essenze selvatiche.

Ci siamo tornati l’anno successivo, una gocciolante settimana di aprile. Nubi grigiastre e pioviggine discontinua lasciavano ogni tanto spazio a sporadici squarci di sole, ma si sono anche raggrumate e scaricate in un temporale inquietante, corrusco e fragoroso.

L’incontro con Biamonti

Partiamo nel mattino umidiccio. Arrivati a Bordighera, saliamo verso le piccole case compatte di San Biagio della Cima, circondate da incombenti creste montuose. Siamo venuti quassù per incontrare lo scrittore Francesco Biamonti. Non più giovane, fuma una sigaretta dietro l’altra, indossando il suo eterno berretto scuro, simile a quello del poeta greco Odysseas Elitis, la sua giacca blu e la sua sciarpa di seta.

Schivo, squisitamente modesto, questo colto e magnifico artigiano della parola ha ritratto, con intelligenza disincantata e straordinariamente lucida, paesaggi tristi, tersi e soleggiati in pagine che, per me, vanno collocate tra le migliori della nostra letteratura. Ci accoglie con la timidezza di chi teme di non corrispondere alle aspettative. Poi ci accompagna nel suo uliveto, dove ci mostra, con mesto orgoglio, gli esemplari più antichi: una pianta del Seicento, una, addirittura, del Trecento. Sfodera, quasi scusandosi, una competenza botanica e un amore per le piante che hanno un precedente – tra i grandi autori – solo in Camillo Sbarbaro.

Ci fa annusare l’amaro aroma dell’Eucalyptus populifolia e ci parla del sorbo, della mimosa, del sambuco, della robinia pseudoacacia, delle decine di cespugli che conosce uno per uno, trattandoli con la famigliarità delle vecchie amicizie. Andiamo a pranzo all’Osteria di Soldano. Mangiamo gnocchi al pesto s-cettu della Liguria occidentale, carne di capra – stufata con fagioli e odori (cannella, lauro, sedano, carote, un pizzico di noce moscata), come si fa per la trippa da noi – e torta di pere calda.

Il vino è un rosso scabro e spoglio come la roccia avara sulla quale è maturato. Col suo calore e il suo leggero retrogusto di mandorle, riesce a sciogliere un poco la riservatezza di questo montanaro, che per strada scambia battute in dialetto e ha la semplice naturalezza di un pensionato qualsiasi al bar o ai giardini pubblici. Gli occhi gli si fanno accesi, e riesce persino a ridere quando gli racconto qualche simpatico aneddoto sugli amministratori comunali della mia zona.

L’arrivo al castello

Nel pomeriggio, attraversiamo la Costa Azzurra sotto un cielo leggero in cui scorrono cenci bioccosi e sfumati di nuvole. La montagna Sainte Victoire ci mostra da lontano la sua roccia bianco-grigiastra, investita obliquamente dalla corrente luminosa del sole declinante e ritagliata, in basso, dall’ocra mattone dei campi. Appare marezzata di vene rossicce e ombreggiata, nelle rughe, di fitte spennellature violette, che conferiscono uno straordinario risalto alla sinfonia tridimensionale dei piani.

Arriviamo al castello alle sette di sera. Sistemiamo i bagagli in stanza. Subito dopo, su suggerimento della padrona, saliamo alla parte vecchia, deserta di Vernègues per cenare nella Crêperie Le Repaire, un maso provenzale di pietra circondato da nodosi cespi di rosmarino in fiore e dalle rovine del terremoto di quasi un secolo fa. Mangiamo con gusto una crêpe à la ratatouille, ripiena di verdure marinate nell’aceto (melanzane, zucchine, peperoni, pomodori), un po’ come nella nostra giardiniera ma senza fagiolini e carote; il tutto servito caldo. La facciamo introdurre da un classico, fresco pastis e la accompagniamo col buon sidro della tradizione celtica.

L’interno del locale somiglia vagamente a quello del Petit Sonnailler: mobili e travi scure, ruvide pareti di sasso, candele accese sui tavolini di legno. Sprazzi di una debole musica di sottofondo, coperta dalle voci degli avventori, mi fanno pensare ai Madredeus, ma non riesco ad avere la certezza che si tratti di loro.

La cappelletta del castello del Petit Sonnailler

Con calma, verso le undici, ridiscendiamo attraverso il villaggio attuale, che alla luce dei fari si mostra in un uniforme tono grigio-marroncino. Strisce pedonali di fronte alla scuola, cartelli indicatori, strette straducole asfaltate ondeggianti fra aree di massi sparsi misti a qualche stento, arsiccio cespuglio. Divalliamo e risaliamo lungo filari di alberi sbilenchi e cupi, fra i quali compare l’insegna in legno, spennellata a mano, che annuncia uno scultore di opere d’arte popolare sacra cavate da macigni: Santonnier. Svoltiamo a destra, passiamo una chiesetta in pietra a vista e dopo poche centinaia di metri rientriamo nel cortile del nostro alloggio.

Prima parte – segue.

Marco Grassano
Foto di M. Ester Grassano

Didascalie:

  • Dietro il castello Le Petit Sonnailler
  • L’accesso al castello
  • Ragnatele cotonose nel bosco
  • San Biagio della Cima
  • La chiesetta prima del castello

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