Ottava puntata del viaggio di Marco Grassano in Frisia.
Mia figlia dice di aver scoperto, nel tratto di via in direzione dell’Università, un locale dove servono zuppe e insalate. Sembra fare proprio al caso nostro.
Passando di fronte a un negozio di elettronica, ci affacciamo a chiedere se dispongono del cavo adatto per ricaricare la nostra fotocamera. Rispondono di no, ma ci suggeriscono – poco oltre la Centraal Apotheek e a due passi dal sagrato della chiesona svettante – un fotografo, che ai propri servizi professionali aggiunge la vendita di apparecchiature e dei relativi accessori. Ci andremo dopo aver mangiato.
Un cortile chiuso da una cancellata in massiccio ferro battuto, con affisso un cartellone raffigurante certo Menno Simmons [Nota 1], fronteggia uno strano edificio religioso (la sola parola che decifriamo nella targa all’ingresso è infatti kerke) dalle linee neoclassiche, basso e senza campanile. Chissà di che si tratta.
Di fianco, la vetrina verdeggiante del Soups & Salads FoodBar. L’interno ha un aspetto esotico, con le pareti e il pavimento fittamente decorati e con l’area bancone carica di arnesi e di prodotti, come in obbedienza a una sorta di horror vacui. La cameriera orientale ci mostra il menù del giorno (van der dag), annotato col gesso su una lavagnetta. Ordiniamo un’insalata (per Ester) e una zuppa thailandese (per me), entrambe prive di componenti animali.
Il cuoco – dall’apparenza autoctona – si mette all’opera. Mentre attendiamo, ci guardiamo attorno. In fondo, alla mia destra, sono esposte alcune latte da cinque litri di Olio extravergine di oliva nelle varianti intenso e delicato, col logo di un paio di produttori italiani mai sentiti (Tenute Bruno; Terina). La zuppa risulta un po’ piccante, anche per la mia notevole tolleranza, ma è buona.
Entra una cliente asiatica, che si rivolge alla barista in inglese. Evidentemente, non provengono dalle stesse parti. Prima di incassare il nostro conto, l’addetta posa alcune birre sul tavolino accanto all’entrata, attorno al quale hanno preso posto, su morbidi sedili, due coppie di quarantenni biondi, dagli abiti a fiori.
Seguiamo, per un buon tratto, il naviglio di fianco a casa. Superiamo un esercizio commerciale dietro l’altro, senza soluzione di continuità. La farmacia in stile liberty. Una vetrina, meramente espositiva, con attrezzature fotografiche analogiche e digitali. Il vicolo che inquadra la facciata della Sint Bonifatiuskerk e la sua torre campanaria, puntata al cielo come un missile: forse rappresenta le eterne ambizioni umane.

L’insegna Foto-groep. Dentro, una parete interamente coperta di vetrinette in cui sono esibiti macchine e obiettivi. Treppiedi di sostegno. Custodie. Cornici di qualsiasi dimensione. Il titolare ascolta la nostra richiesta, annuisce e inizia a rovistare. Sul bancone, ci strappa un sorriso la scritta pubblicitaria Re-born: Renato rinato. Alla fine, l’uomo emerge dal retrobottega stringendo un caricabatterie universale, estrae (è facilissimo) dal nostro apparecchio il piccolo accumulatore e ci mostra come adattarvi l’accessorio (altra operazione assai semplice).
Saliamo un attimo in stanza, per collegarlo alla presa. Ci dirigiamo quindi verso il Boekhandel Van der Velde. La libreria è enorme: occupa l’intero, articolato pianoterra – ammodernato con gusto – di due palazzine adiacenti; una scala di legno massello conduce poi agli etagen superiori.
Curiosiamo qua e là. Oltre a una caterva di romanzi e all’ampia sezione per bambini, tematiche vaste e abbondantemente rappresentate, a partire da culinair, kunst (arte), muziek, natuur, psychologie, filosofie (Nietzsche, Sartre e Camus in olandese mi danno le vertigini). Gli scaffali dedicati alle guide turistiche e alla letteratura di viaggio (reizen) si trovano in fondo al salone di sinistra, con testi certo interessanti, di autori internazionali, ma tutti volti nell’ostico fiammingo.
Ci rifugiamo tra i volumi inglesi. Trascurando i best sellers, sfogliamo un po’ di classici. L’Inferno di Dante, nella magnifica traduzione (secondo me, la migliore in ogni lingua) di Henry Wadsworth Longfellow: “Midway upon the journey of our life / I found myself within a forest dark, / For the straightforward pathway had been lost“. Metro (pentametro giambico) e linguaggio sono opportunamente mutuati dal Paradise Lost di John Milton: il quale, nel formarsi come scrittore, aveva assorbito la lezione dantesca. È stata abbandonata la terza rima – del resto, estranea a una cultura puritana in cui non si contempla il dogma della Santa Trinità – a beneficio di una puntuale resa isostichica. La Commedia in versioni più recenti, i poemi omerici (in pseudo versi e in prosa), Virgilio, Shakespeare, i grandi romanzi della tradizione britannica…
Estraggo un’antologia di 100 liriche – selezionate, dopo la sua morte, dai famigliari – di Seamus Heaney, premio Nobel nordirlandese (1995). Sono versi difficili, materiati di un lessico succulento, con espressioni peculiari che spesso non conosco [2], ma decido di cimentarmi ugualmente nella loro lettura. L’amico Mario Mantelli possedeva diverse raccolte di questo poeta, che evidentemente amava.

Imbocchiamo la via di edifici bassi – abbastanza angusta, ma sempre zeppa di vetrine – che inizia alle spalle del misterioso, bronzeo Anne Vondeling. È denominata Kleine Kerkstraat: non so decidere se il nome significhi “strada della piccola chiesa” o “piccola strada della chiesa”. Al termine, si diparte, verso destra, un’arteria più ampia; il fatto che questa si chiami Grote Kerkstraat (“grande strada della chiesa ” o “strada della grande chiesa”?) non scioglie il mio dubbio.
Sfiliamo subito di fronte al Museo della Ceramica. Somiglia un po’ al Marengo Museum: anche per questo motivo, non ci invoglia a visitarlo. Le case sono di dimensioni contenute ma di aspetto signorile. Alcune recano sull’architrave un’iscrizione. Ecco, per esempio, De Swarte Arendt. Dico a Ester che, secondo me, swarte è “nero”. La filosofa Hannah Arendt la conosciamo entrambi.
Simile al portale d’ingresso del nostro vecchio Ospedale Militare si presenta invece la facciata della Sint Anthonij Gasthuis – Anno 1878. La destinazione dell’edificio è alberghiera, però il suo aspetto è innegabilmente quello di una caserma ottocentesca.

Sfociamo nel triangolo di verde pubblico a lato di un’altra “kirkona”. Ci lasciamo alle spalle l’abside, inciso da vetrate oblunghe. La via che imbocchiamo per tornare indietro la si direbbe di edifici recenti, o ristrutturati da poco. Sul marciapiede in laterizi muschiosi, tuttavia, crescono – magari seminati apposta – i malvoni già osservati altrove.
L’intrico di stradine ci riporta sul viale dove abbiamo cenato la prima sera. Percorrendo la nostra via, svolto, incuriosito, nella trasversale a sinistra, che si apre, subito dopo, in una piazzuola. Occupano lo slargo auto parcheggiare e la terrazza di un ristorante, e lo domina un curioso edificio, il cui smilzo profilo è angoloso come una piramide azteca.

Nel viale ci vogliamo cenare di nuovo, all’Eetcafé Spinoza: scelto sia per le assonanze filosofiche che per le segnalazioni positive. Andiamo a est. Lo troviamo dopo un centinaio di metri. Il piano interno dell’edificio è rialzato di due gradini rispetto al livello stradale. Attraversiamo l’ingresso e un breve corridoio. La sala è sulla sinistra: pavimento in assicelle di legno, pareti intonacate in beige con tratti di mattoni a vista, mobili massicci, stile Far West. Ci appollaiamo, secondo le indicazioni, sugli sgabelli di un tavolinetto alto, addossato al muro. Ascoltando le nostre esigenze, ci consegnano un Vegan menu, in inglese. Dopo il Seitan, mi concedo l’infrazione di una crème brulée with whipped cream. Panna montata vegetale, naturalmente.
Tiro fuori dal borsello il libro di Heaney e provo faticosamente a leggere la seconda poesia: “All year the flax-dam festered in the heart / Of the townland; green and heavy headed / Flax had rotted there, weighted down by huge sods…” [3].
Vado a pagare alla cassa, sotto l’arco oltre il quale è posto il banco di mescita della birra. Il cameriere – o titolare che sia – si complimenta per la mia accompagnatrice. Gli spiego trattarsi di mia figlia; siamo in viaggio perché si è appena laureata in Filosofia (she has just graduated in Philosophy): non potevamo, quindi, perderci un locale come questo.
Facciamo una passeggiata digestiva. Attraversiamo la piazzetta con la fontana del monumento al Conte (Graaf) di Nassau. Proseguiamo, fino a ritrovarci in riva al canale ormai conosciutissimo.

Tornando in camera, notiamo che i vertici dei lecci più alti sono ancora indorati dall’estrema luce del tramonto.
Marco Grassano
Ottava parte. Segue
Note
- [1] Riformatore anabattista cinquecentesco olandese, i cui seguaci sono detti Mennoniti (da Wikipedia).
- [2] Così suona, per esempio, in originale (e nell’italiano dell’ottima Nadia Fusini), l’incipit della prima poesia antologizzata: “Between my finger and my thumb / The squat pen rests; snug as a gun. // Under my window, a clean rasping sound / When the spade sinks into gravelly ground: / My father digging…“
(“Tra il mio pollice e l’indice s’acquatta / chiatta la penna; come una pistola. // Sotto la finestra, il raschio schietto / della vanga che affonda nella ghiaia: / è mio padre, scava…“). - [3] Così traduce Roberto Sanesi: “Per tutto l’anno il lino fra le chiuse / nella zona abitata fermentava; verde, / con il capo pesante vi si era decomposto, pressato / da zolle enormi…“.