Come si racconta un museo? Il quesito, evidentemente, non tormenta soltanto il giornalista culturale che scrive queste righe, frequentatore abituale di musei grandi e piccoli, ma anche i creatori e i realizzatori di docufilm.
Nelle sale italiane verrà proiettato, soltanto nelle date di martedì 22 e mercoledì 23 ottobre, National Gallery 200, il lungometraggio che celebra i primi due secoli di vita della prestigiosa istituzione britannica, nel cuore di Londra (e che Trafalgar Square non sia stata la prima sede lo apprendiamo proprio dal film). Ne firmano la regia Ali Ray e Phil Grabsky che confezionano un documentario interessante e ricco di spunti di riflessione.
Le prime immagini fanno pensare che la chiave di lettura scelta sia quella del “dietro le quinte”: alcuni membri del personale vengono infatti colti in azioni che solitamente non sono visibili durante l’orario di apertura, come la preparazione della caffetteria e la pulizia dei quadri nelle sale. Ma è solo un’introduzione.
L’approccio è ben diverso e significativo (sia detto in modo neutro) dei tempi che viviamo. Il messaggio che vuole mandare National Gallery 200 è che il museo deve essere inclusivo se vuole continuare a esistere come istituzione culturale.
Un museo per tutti
Essendo impossibile presentare tutte le duemilacinquecento opere della pinacoteca, si è scelto di offrirne una selezione attraverso un filtro molto particolare: il rapporto di un ristretto numero di persone con il patrimonio della galleria. Queste persone non sono state individuate a caso, bensì con lo scopo di rappresentare un ventaglio il più ampio possibile della società britannica.
A raccontare sono dunque una guardia di sicurezza e il direttore della National Gallery Gabriele Finaldi, uno storico dell’arte, un ex produttore televisivo (omonimo del cantante dei Bauhaus, sia detto per inciso), e la principessa Eugenie, figlia del duca di York Andrea (ecco perché il suo volto mi è parso subito familiare: è identica al padre!).
Ciascuno di loro racconta la propria opera preferita. Quella di Finaldi, per esempio, è San Michele che trionfa sul diavolo di Bartolomé Bermejo, una tavola dipinta a olio che sembra una carta dei Tarocchi. Altri menzionano l’Adorazione dei Re Magi di Jan Brueghel il Vecchio e L’esecuzione di Lady Jane Grey dipinta da Paul Delaroche. La Madonna della cesta del Correggio è la scelta della principessa Eugenie.
Non solo capolavori
Mi pare di aver notato un paio di sbavature, forse dovute alla traduzione. La prima riguarda i personaggi nella Cena in Emmaus di Carvaggio (la prima versione, del 1601; quella del 1606 è alla Pinacoteca di Brera a Milano); la seconda il riferimento alla Vergine delle Rocce di Leonardo da Vinci (in questo caso la seconda versione, mentre la prima è al Louvre) come a una tela: trattasi invece di una tavola.
Rappresentatività e colonialismo (anche culturale), legami familiari e trasmissione della passione per l’arte, superamento delle barriere (interessanti le considerazioni della guida affetta da sordità che racconta le opere con il linguaggio dei segni) e dei traumi personali.
Di questo e tant’altro parla il docufilm, soffermandosi su alcuni dipinti che non sempre sono capolavori immediatamente riconoscibili. Volutamente, infatti, il lungometraggio sorvola sui gioielli più celebri della National Gallery, come I coniugi Arnolfini di Jan van Eyck, Il battesimo di Cristo di Piero della Francesca, la Venere allo specchio di Diego Velázquez che la macchina da presa inquadra (è il caso di dire) soltanto di passaggio, per pochi istanti.
Sintomatico, per esempio, è il caso del Ritratto del Duca di Wellington dipinto da Francisco Goya, che compare in più di un’occasione ma solo perché è appeso accanto all’Esecuzione di Lady Jane Grey già menzionata. Eppure si tratta non solo di uno dei ritratti più famosi realizzati da Goya, ma anche di un’opera protagonista di un clamoroso furto nel 1961 e di un bel film che lo ricorda.
In base ai propri ricordi ogni spettatore rivivrà le visite alla National Gallery, magari sognando di potersi permettere il metodo che per anni ha usato lo scrittore Hisham Matar, lo stesso che il padre di Claudia Winkleman, annunciatrice televisiva e giornalista con frangetta e trucco alla Liz Taylor di Cleopatra, adottava con la figlia: concentrarsi su un solo quadro per visita.
Si può farlo soltanto nei musei con accesso gratuito, come le benemerite istituzioni culturali britanniche.
Saul Stucchi
PS: la Grande arte al cinema distribuita da Nexo Studios proseguirà il 19 e 20 novembre con il docufilm Pissarro. Il padre dell’Impressionismo.