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Voi siete qui: Biblioteca » “Un punto di approdo”: un mese a Siena con Matar

10 Maggio 2020 Scritto da Saul Stucchi

“Un punto di approdo”: un mese a Siena con Matar

L’editoriale “L’ALIBI della domenica” è dedicato questa settimana al libro “Un punto di approdo” di Hisham Matar.

Sono trascorsi quattro mesi tra la mia lettura di “A Month in Siena” e quella di “Un punto di approdo”. Il libro è lo stesso, ma nel frattempo è cambiato il mondo e io con esso. Probabilmente è cambiato anche l’autore, lo scrittore Hisham Matar che a marzo sarebbe dovuto venire a Pordenone, ospite del Festival Dedica. Ma poi, alla fine di febbraio, è esplosa la pandemia del Coronavirus che ha diviso a metà questo breve periodo, ma soprattutto ha separato in un “prima” e in un “dopo” la vita di ciascuno di noi, come uno spartiacque.

La versione originale, edita nel 2019 da Viking / Penguin, è stata per me la porta d’accesso al mondo di Matar. Di seguito ho letto “Il ritorno” nell’edizione Einaudi tradotta da Anna Nadotti, opera che gli è valsa il Premio Pulitzer nel 2017 per la categoria Autobiografia, e poi ho fatto un breve viaggio a Siena, un paio di settimane prima che scattasse il lockdown.

Hisham Matar, Un punto di approdo, Einaudi

Infine ho letto “Un punto di approdo”, la versione italiana di “A Month in Siena”, sempre tradotta dalla Nadotti per Einaudi. Il titolo viene da quello del terzo capitolo. È stato un caso, tuttavia aver avuto la sorte di leggere l’opera prima e dopo lo scoppio della pandemia mi ha permesso di leggere due libri diversi: non per la lingua in cui sono scritti, ma per l’esperienza del lettore.

Un mese a Siena

Cos’è “Un punto di approdo”? È un distillato di tante cose. È prima di tutto un inno d’amore per Siena, una città che ha in sé la propria stella polare. Per le sue strade e contrade, per quel “palcoscenico illuminato” che è Piazza del Campo. Indissolubilmente legata alla città è la sua arte che Matar ha imparato ad amare a Londra, dove vive, visitando ogni giorno la National Gallery. Nell’arte senese ha trovato un rifugio, appunto un “approdo”, nella tempesta emotiva della perdita del padre, vittima del regime di Gheddafi.

“Un punto di approdo” è un diario intimo con riflessioni sulla vita e sulla morte e sul rischio di morire proprio quando – forse – si è raggiunta la consapevolezza di aver imparato a vivere. Sui cimiteri e sulle fosse comuni, in queste settimane tornate d’attualità, ma mai scomparse. Sulla perdita e sulla nostalgia, sul desiderio di ricongiungimento con le persone amate che non ci sono più.

Il libro di Hisham Matar nella Sala dei Nove a Siena

Camminando per le vie di Siena per un mese intero, Matar ha preso le proprie misure, levigando se stesso “sugli spazi e le pietre della città” (non gli crediamo quando afferma che questa era un’attività più fisica che intellettuale, inerente più con il ritmo che con le idee).

Ancora: il libro è una sorta di breviario laico con debiti verso Montaigne e Marco Aurelio, la cui massima “Ama ciò a cui ritorni” è molto cara all’autore. Un’altra viene da un suo vecchio amico di Tripoli: “il desiderio è un animale che si mantiene in forma solo se denutrito. In termini evoluzionistici, il fallimento è il suo prerequisito, la frustrazione ciò che lo alimenta”. Sembra tratta dal “Sermone di Natale” di Stevenson.

“Un punto di approdo” è una lettera inviata a chi non potrà riceverla, in cui lo scrittore riflette sull’importanza del parlare a chi è assente e del parlare a se stessi (come fanno le custodi della Pinacoteca di Siena).

La pagina più toccante è quella in cui racconta l’emozione di riascoltare la voce della moglie che si rivolge al padre di lui come se costui fosse presente. Il file audio era finito in una playlist che Matar ascolta nell’appartamento preso in affitto. Qualcuno si è preso la briga di ricrearla su Spotify (cercate “Hisham Matar A Month in Siena” di Ehebden).

Il trauma della Peste Nera

In questo appartamento senese Matar ha avuto tempo e modo di riflettere sulla sua “privata genealogia di stanze” e sull’architettura e sull’anima della città: “Il gioco di rimandi fra esterni discreti e interni sontuosi, fra quieta serenità fuori e cura studiata e pensosa dentro, una faccia modesta e mite che nasconde un cuore ardente, è un vezzo senese, un trucco da illusionista che la città ama giocare. Non lo fa solo per il desiderio di stupire ma anche, pensavo in quei primi giorni, per dimostrare la potenzialità trasformatrice del varcare una soglia”.

In un mese ha conosciuto persone, stretto amicizie, studiato l’italiano, sperimentato generosità e ospitalità. “Hai bisogno di aiuto?” è la prima domanda che gli rivolge Adam quando Matar lo saluta in arabo, mentre il padre lo accoglie con le parole “Benvenuto, figlio mio”.

Giorno dopo giorno Matar ha esplorato Siena e ne ha visitato i musei. Usando il suo metodo di osservare, affinato in oltre un quarto di secolo, si è concentrato sulla Sala dei Nove e poi sulla Cappella del Palazzo Pubblico. Sono due universi distinti e distanti, separati dall’esperienza tragica della Peste Nera del 1348. La pestilenza ha traumatizzato l’immaginazione e per secoli ha lasciato il segno, come mostra la veloce carrellata da Michelangelo a Poussin e Rodin. A Siena cambiò tutto. Se lo Stato aveva commissionato gli affreschi a Lorenzetti, la Chiesa sarebbe stata il committente di quelli di Taddeo di Bartolo.

“Un punto di approdo” è anche un piccolo trattato su come si dovrebbero visitare i musei e su come andrebbero guardate le opere d’arte, ricco com’è di considerazioni (osservazioni, è il caso di dire) sul “vedere”, la “visuale”, la “prospettiva” e il desiderio di vedere attraverso gli occhi altrui. In apertura di libro, Matar spiega il proprio metodo da cui confessa di trarre grande beneficio.

“Un quadro cambia mentre lo guardi e cambia in modi spesso inaspettati. Ho scoperto che un dipinto richiede tempo. Ora impiego parecchi mesi o più spesso un anno prima di riuscire a passare oltre. E nel frattempo quel quadro diventa un luogo mentale e fisico della mia vita”.

Lo ha applicato alla Sala dei Nove, alla “Madonna dei Francescani” di Duccio di Buoninsegna e alla “Madonna del latte” di Ambrogio Lorenzetti, ma c’è anche un excursus sul “Davide con la testa di Golia” di Caravaggio, esposto alla Galleria Borghese di Roma.

Frittelle in Piazza del Campo

Io ci ho provato, ma ho notato che può funzionare soltanto quando si è da soli. Soffermarsi a lungo davanti a un’opera è infatti contagioso e provoca l’assembramento degli altri visitatori, convinti che il quadro in questione celi chissà quali segreti da scoprire assolutamente. Per questo, quando capita, mi sposto su un’altra opera per poi tornare alla precedente non appena gli altri se ne siano andati.

Frittelle in Piazza del Campo a Siena

Sono invece riuscito a ripetere la sua esperienza in Piazza del Campo.

Era quasi mezzogiorno e l’intero Campo era inondato di luce. Mi sono steso sul selciato di mattoni levigati da secoli di pedoni, cavalli e carri. Sentivo il calore filtrarmi nella schiena. Ascoltavo le occasionali conversazioni intorno a me. Mi sarebbe piaciuto parlare la lingua. Mio padre la parlava. Vedevo la sua faccia, l’unica che ho conosciuto, quella di prima della prigionia, quando stava bene ed era libero. Poi mi sono ricordato che una volta mi aveva parlato in italiano – solo due o tre frasi – con un sorriso negli occhi, divertito dal fatto che non capissi. Ero sconcertato dal suo atteggiamento, dalla mia ottusità con quella lingua, dall’apparente impenetrabilità dei suoi pensieri. In quel momento avrei voluto ricordare ciò che aveva detto, perché adesso, pur non sapendo parlare l’italiano, un po’ lo capivo. Mio padre viaggiava spesso solo. Pare che non avesse mai alcun problema a godersi la vita. Ma in quel momento, disteso in piazza del Campo, con il Cielo sereno sopra di me, sentivo di aver fatto meglio, sentivo che l’allievo aveva superato il maestro”.

Ho letto e riletto il brano gustandomi le frittelle acquistate nella baracca in cui le ha comprate lui. E come lui pensava al padre perduto, io pensavo al mio, scomparso da pochi mesi. Alle parole che ci siamo detti e soprattutto a quelle che non ci siamo detti.

Mentre leggevo “Un punto di approdo” avevo tra le mani anche “Diario dell’anno del Nobel” di Saramago (Feltrinelli). Un passo mi sembra che possa ben adattarsi a fare da chiusura a questa recensione:

Qualsiasi testo narrativo […] non è costituito solo da personaggi, conflitti, situazioni, episodi, peripezie, sorprese, effetti stilistici, esibizioni di tecnica narrativa – un testo narrativo (come ogni opera d’arte) è l’espressione più ambiziosa di una parte identificata dell’umanità, cioè il suo autore. Mi domando, altresì, se ciò che determina il lettore a leggerlo non sia anche la speranza di scoprire nel cuore del libro — più che la storia che gli sarà raccontata — la persona invisibile, ma onnipresente, dell’autore. A quanto credo di intendere, il romanzo è una maschera che nasconde e, insieme, rivela i tratti del romanziere. Probabilmente (dico probabilmente) il lettore non legge il romanzo, legge il romanziere”.

Verissimo. Ma soprattutto, credo, il lettore legge se stesso.

Saul Stucchi

Hisham Matar
Un punto di approdo
Traduzione di Anna Nadotti
Einaudi
2020, 128 pagine
16 €


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