Credo che chiunque sia nato dal 1950 in poi non possa separare l’esperienza di un viaggio dalla colonna sonora che lo ha accompagnato.
A quanto pare le prime autoradio vennero prodotte nel 1930 ma soltanto tre decenni dopo si ebbe una loro diffusione su larga scala in Europa e si dovette attendere il 1968 perché la Philips introducesse i primi modelli con lettore di audiocassette.
Va precisato che la colonna sonora non è un’esclusiva dei viaggi automobilistici, per quanto questi le siano particolarmente congeniali. Io per esempio ricordo perfettamente la prima volta in cui, tornando in treno a quindici anni dalla gita scolastica a Ravenna e ormai alle porte di Milano, ascoltai un brano musicale dalle cuffiette di un Walkman, l’antenato dell’iPod, che mi venne prestato per i tre minuti e quarantotto secondi necessari a completare la riproduzione di “Lost in the supermarket” dei Clash. Fu un momento di piccola magia e di sospensione, per quanto illusoria e fugace, della montagna di angoscia che mi schiacciava a quell’età.

Con ciò non voglio affatto intendere che l’effetto della musica sulle nostre esistenze abbia sempre o in modo preponderante il carattere di un’illusione o di un’evasione. Non posso certo affermare, come il regista tedesco Wim Wenders, che il rock mi abbia salvato la vita ma spesso mi ha aiutato a ricongiungermi con i miei lineamenti più autentici, a ritrovare energia, a tener duro o a rialzarmi.
E comunque non soltanto di rock si tratta, per quanto non mi sia mai capitato di godere delle “Variazioni Goldberg” di Bach, per me uno dei vertici della creatività umana, tenendo un volante fra le mani. Cronici problemi al collo e alla schiena mi impediscono ormai di guidare a lungo e così questa incombenza tocca a mia moglie, che in cambio ottiene l’ascolto di brani d’opera, da me sopportati come una sorta di necessario sacrificio, fatta eccezione per alcune arie che riescono a frugarmi in quella che forse si potrebbe chiamare anima.
Il viaggio dei 20 anni
Tornando agli spostamenti ferroviari, ricordo con altrettanta precisione che quando il convoglio partito da Parigi sbucò fuori dal tunnel sotto la Manica facendomi attraversare per la prima volta il paesaggio inglese, impostai sul mio iPod, nel frattempo inventato e commercializzato, una selezione delle più belle canzoni degli Smiths.
Il viaggio dei vent’anni ci vide con gli amici percorrere le strade croate (soprattutto isolane), slovene e austriache. A farla da padrone, eravamo a metà degli anni Ottanta, furono U2, Alarm e Big Country. L’amore per il gruppo scozzese ha resistito lungo tutti questi anni senza perdere di intensità. Quel suono così originale e irripetibile, la compresenza di energia e malinconia, disperazione e voglia di vivere, rabbia e struggimento, lirica ed epica ha occupato definitivamente un posto privilegiato dentro di me.
La memoria ripropone però con inusuale vividezza un singolo momento che si staglia sullo sfondo di quei molti giorni di vagabondaggio e viene accompagnato da un brano che ha poco a che fare con la consuetudine degli ascolti di quell’estate: abbiamo da poco superato il Brennero sulla via del ritorno e io mi sto chiedendo cosa ne farò di tutta la bellezza di quel viaggio mentre lo stereo sta riproducendo “Dogs” dei Pink Floyd.

Della successiva peregrinazione on the road, un paio d’anni dopo, che ebbe la sua prima tappa a Strasburgo e la conclusione a Marsiglia attraverso Alsazia, Borgogna, Franca Contea e Alvernia, mi è rimasta la frequenza con cui sceglievamo “Trespass”, il secondo album dei Genesis, che sembrava intonarsi alla perfezione con il paesaggio francese e “New York City Serenade” di Bruce Springsteen.
Per consolarci del maltempo sulla Foresta Nera e la Germania meridionale, facemmo spesso ricorso agli album per noi più in auge in quel periodo ma riuscimmo ben poco a contrastare la malinconia.
Una colonna singolare
Un breve viaggio autunnale che toccò Heidelberg e, per la seconda volta, Strasburgo e Notre-Dame du Haut, la cappella realizzata da Le Corbusier a Ronchamp, ebbe la sua colonna sonora (resta indissolubilmente legata a quei chilometri “Marquee moon” dei Television) ma ne produsse anche una, alquanto singolare.
Durante un tragitto serale, Marco azionò di nascosto il registratore per cogliere e conservare una porzione di una ventina di minuti della conversazione tra me e Matteo all’interno dell’abitacolo, nella quale lui di tanto in tanto si inseriva. Ci fece poi una copia del nastro ma soprattutto, con la generosità e la pazienza che si addicono alle amicizie di una vita, sbobinò la registrazione di quelle sgangherate parole e ce ne regalò il testo nero su bianco.…
– Perché non può essere così per tutto? Perché ci sono dei momenti in cui ti senti pienamente facente parte di quello che è la vita e persuaso della sua bellezza e un istante dopo non è più così? Cos’è che cambia, psicologicamente e chimicamente? Cos’è che ti cambia?…
– …questa continua oscillazione tra essere sulla soglia del nichilismo e sulla soglia della corrispondenza, della persuasione…
– …dai, andiamo a mangiare in quella taverna che abbiamo visto oggi…
Regalo del caso
Non sempre si può sceglierla la colonna sonora, a volte la si subisce e basta. Un ritorno da Parigi, eccoci di nuovo in treno, venne monopolizzato dal primo, peraltro memorabile, album di Tracy Chapman, riproposto ossessivamente a beneficio dell’intero vagone da un gruppo di ragazze australiane.
Posso contare anche un paio di spostamenti per assistere a concerti ambiti che si tenevano lontano da Milano. Quella di Eddie Vedder, supportato da Glen Hansard, la sera del 24 giugno 2017 all’Ippodromo di Firenze, è probabilmente l’esibizione dal vivo più emozionante fra tutte quelle cui abbia assistito.
Accade poi che la musica arrivi come regalo del caso e prima ancora del raffinato, o quantomeno simile al nostro, gusto di qualcuno. La cena a base di tapas e birra nel piccolo ristorante del Born, il quartiere medievale di Barcellona, venne accompagnata dai migliori brani dei Beirut (altro gruppo oggetto di un mio amore intenso quanto duraturo): dal primo sorso di cerveza sulle note di “Nantes” fino al suono della tromba che conclude la meravigliosa “Elephant Gun”, i cui accordi iniziali di ukulele sono stati per diversi anni la suoneria del mio cellulare.
Dunque un sincero ringraziamento a chi, nel pomeriggio di pochi giorni fa, in uno dei miei luoghi del cuore, la Piazza dell’Arco di Numana, con il suo straordinario belvedere, ha lasciato fuoriuscire dal locale in allestimento per la serata le note di “Oceans” dei Pearl Jam.
Hold on to the thread
The currents will shift
Glid me towards
You know something’s left
And we’re all allowed
To dream of the next
Giovanni Granatelli