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Voi siete qui: Italia » Ricordo di una bella gita agostana ad Osimo

13 Ottobre 2021 Scritto da Giovanni Granatelli

Ricordo di una bella gita agostana ad Osimo

Quella volta che tentammo di visitare Osimo (AN) e ci ritrovammo nella più fredda giornata di Ferragosto che io ricordi, la temperatura all’ora di pranzo scesa sino a quattordici gradi e sotto una pioggia così violenta da suggerirci di non uscire dall’auto, risale ormai a molti anni fa.

Ricordo che nel tardo pomeriggio, cessata la tempesta, ci affacciammo sullo splendore verde e azzurro della Baia di Portonovo, forse sufficiente da sola a ribadire che il Conero è uno splendido frammento di costa balcanica rimasto chissà perché incollato su questa sponda dell’Adriatico e scendemmo fino alla spiaggia di ciottoli e prima ancora fino alle pareti di pietra bianca della piccola chiesa di Santa Maria, gioiello di architettura romanica con influenze bizantine che sembra messo lì apposta a rammentare la permanente vulnerabilità delle umane cose ma anche la loro sorprendente capacità di resistenza e sopravvivenza.

In tanti anni di successiva e costante frequentazione delle Marche, riconosciute ormai come nostro paesaggio dell’anima, non abbiamo più ripetuto la gita, quasi che quel giorno ci fosse stato espresso un veto, che Osimo ci avesse negato ospitalità in modo troppo deciso.

Parcheggiamo poco sotto il centro storico, nel quale entriamo attraverso Porta Vaccaro, detta anche Tre Archi, la porta rivolta verso est. Ritroviamo subito la tipica architettura marchigiana, il suo mattone tra il giallo, il rosa e il marrone. Corso Mazzini, lungo scenario caldo ed elegante come quasi tutto da queste parti, sale verso il Palazzo Comunale e il Duomo.

Pressoché su ogni vetrina di negozio, manifesti di vario taglio e dimensioni contenenti un ritratto fotografico salutano un amico da poco scomparso, un byker locale evidentemente molto amato e molto popolare. Nell’atrio del Palazzo Comunale, dodici statue romane acefale, secondo alcune fonti decapitate durante una guerra quattrocentesca ma forse semplicemente mutilate dal tempo e dalle intemperie: deriva da queste l’appellativo di senza testa affibbiato agli osimani.

San Leopardo

La cattedrale, dedicata a San Leopardo, primo vescovo della città, è situata quasi in cima al colle e la sua mole romanico – gotica in pietra chiara si staglia oggi contro un cielo di un azzurro inverosimile, che fa pensare a una benedizione. Belli i due portali d’ingresso e l’antico architrave trasferito sulla parete di destra, nel quale chissà perché gli apostoli scolpiti sono soltanto dieci.

Osimo: sarcofago datato al VI sec. d.C.

È nella cripta che si trova uno degli elementi di maggior pregio, un piccolo capolavoro: un sarcofago in stile romano del VI secolo che conserva i resti dei martiri osimani e presenta scolpita un’affollata e furiosa scena di caccia, uomini che inseguono cervi, cani che azzannano cinghiali, con un realismo di altre epoche, meno ipocrite della nostra.

Nulla però intriga, stupisce e incuriosisce quanto il crocifisso ligneo medievale collocato in una piccola cappella: il corpo barbuto del Cristo mostra due evidenti seni femminili, è abbigliato con un improbabile gonnellino rosa e i piedi sono inchiodati separati sul legno della croce, soluzione che non ricordo di aver mai visto prima.

Osimo: crocifisso ligneo medievale

Le fattezze femminee, la gonna e l’inusuale numero di chiodi, quattro invece di tre, hanno prodotto un’infinità di ipotetiche interpretazioni, soprattutto di carattere alchemico ed esoterico ma resta in lizza anche la versione che riconduce tutto a un’imperizia dell’autore e alla necessità di celare alla vista dei fedeli la rappresentazione eccessivamente verosimile di alcune parti anatomiche. A smorzare le molteplici voci, il carattere miracoloso attribuito al crocifisso, che alla fine del XVIII secolo avrebbe più volte aperto occhi e bocca davanti a sbalorditi testimoni.

Tornati all’aria aperta, un’anziana signora dalla solare cordialità ci suggerisce spontaneamente di recarci ai giardini pubblici, dai quali si gode una vista ampia e straordinaria del panorama collinare, dai Monti Sibillini fino al mare.

Una gatta bianca si agita sotto un albero, dove un uccello incauto ha sistemato il nido su un ramo troppo basso: tentativo dopo tentativo, la predatrice riesce a ghermire uno dopo l’altro tutti quanti i pulcini, nonostante mia moglie cerchi a più riprese di distrarla; poco dopo, accanto alla chioma dell’albero, sentiamo il richiamo ossessivo e straziante della mamma passera. Nel giardino svetta anche un pino d’Aleppo centenario, classificato tra gli alberi monumentali d’Italia.

Ora di pranzo

È venuta l’ora di pranzare ma ci fermiamo delusi davanti alla porta dell’osteria che tutti decantano e che senza preavviso resterà chiusa per tre giorni. L’intuito però mi suggerisce un’ottima alternativa. All’Osteria Moderna ci assegnano un tavolo accanto a uno dei finestroni affacciati sul paesaggio così che ci sembra di mangiare con gli occhi affondati in un capolavoro rinascimentale.

Vista dall'Osteria Moderna di Osimo

Il cibo è tutto buono e tanto: la crescia, i salumi, i formaggi, il fritto misto, in quantità per giganti, di verdure e olive ascolane e cremini, la rivisitazione del tiramisù. Il vino rosso ci viene servito freddo e a me salta in mente che così lo bevevano Hemingway e compagni nelle pagine di “Fiesta”. Il conto ci suscita l’allegria di quando si vince un premio.

Combattendo contro la sonnolenza postprandiale, ci avviamo verso l’ultima tappa della nostra gita. Se fino a qualche anno fa il nome Osimo faceva probabilmente venire in mente il trattato qui siglato che regolava in modo definitivo le distinzioni territoriali fra l’Italia e quella che allora si chiamava Jugoslavia, adesso a quanto pare richiama le grotte sotterranee da circa un decennio aperte al pubblico, attrazione in auge, che alcuni amici hanno visitato consigliandola e dunque non voglio tralasciare.

Ci siamo però organizzati male, occorreva prenotare la visita online e in anticipo, per il prossimo ingresso bisogna aspettare un paio d’ore e così lasciamo perdere, vuol dire che con questa città manterremo un altro piccolo conto in sospeso.

L’antico granaio trasformato in ospitalità nel quale alloggiamo è situato tra Sirolo e Numana, in una posizione privilegiata dalla quale Osimo, distante pochi chilometri, risulta anche visibile e così mi pare davvero sciocco non ritentare qualche giorno dopo.

Le Grotte del Cantinone

Appena superato il banco dell’ufficio turistico IAT, sotto la Basilica di San Giuseppe da Copertino, davanti all’ingresso delle Grotte del Cantinone è opportuno, benché siamo in agosto, indossare un maglione, perché sottoterra la temperatura scende di parecchio. La guida che ci accoglie e ci accompagnerà è una donna alta, magra e bella di nome Simona e al termine della visita dovremo scegliere con cura le parole per lodarla e ringraziarla: per un’ora intera ci regala passione, competenza, simpatia e capacità comunicative.

Esordisce precisando che la definizione di “grotte” non è la più corretta e sarebbe preferibile utilizzare il termine “ipogeo” quindi ci accompagna alla scoperta di questi circa trecento metri di mondo sotterraneo. Le gallerie sono scavate nell’arenaria e si conservano proprio grazie all’umidità e alle basse temperature, altrimenti crollerebbero in poco tempo. Senza l’illuminazione artificiale, brancoleremmo nel buio più totale.

Osimo: le grotte del Cantinone

Simona ci svela alcuni trucchi che venivano usati per orientarsi ma dubito che noi saremmo in grado di utilizzarli. Inaugurate dai piceni, più di duemila anni fa, come rifugio in caso di invasioni, sono state ampiamente sviluppate e consolidate in epoca medievale, come testimoniano simboli e figure di carattere religioso. Durante l’ultimo conflitto mondiale vennero usate come rifugio antiaereo e nascondiglio per partigiani ed ebrei. In realtà quelli che furono messi in atto in quelle tragiche contingenze quali lavori di consolidamento, hanno compromesso il fragile equilibrio di alcuni tratti dell’ipogeo.

Cerco di riepilogare scorrendo rapidamente lungo i secoli: l’oscurità diradata soltanto dalle fiaccole e in alcuni punti da sottili lamine di luce garantite dai pozzi e dalle prese d’aria, la meditazione e la preghiera in una condizione di estrema separatezza dal mondo, l’impaurita e cruda coabitazione di uomini e bestie mentre fuori infuria la guerra…Forse una buona parte del fascino esercitato da questo luogo così singolare risiede nel suo essere al di là della nostra esperienza, del suo mostrarsi in una sorta di universo parallelo.

Simona ci racconta che qualche anno fa il gruppo musicale folk-rock angloamericano degli Orphan Brigade in tournée da queste parti chiese di visitare, nelle poche ore a disposizione prima del trasferimento altrove, un sito speciale della zona. La visita all’ipogeo si trasformò in una sorta di folgorazione. Ottenuto il permesso di portare gli strumenti in quello che hanno definito “un luogo traboccante di vita, morte, spiritualità, mutamento e misticismo” composero in una manciata di minuti il brano “Osimo (come to life)” attorno al quale si è poi sviluppato l’intero album “Heart of the Cave”. L’immagine di copertina del CD mostra uno dei tamburi della batteria fotografato in una delle nicchie dell’ipogeo.

Giovanni Granatelli

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