Seconda e ultima parte del reportage di Lorenzo Iseppi sul Battistero di Parma. La prima si può leggere qui.
L’aspetto su cui si focalizzano le indagini e le interpretazioni del Battistero di Parma è lo zooforo. Così viene chiamata la fascia che, come la pellicola d’un cortometraggio, scorre a circa 2 metri d’altezza dal suolo coprendo 7 lati del monumento. Propone una serie di riquadri scolpiti a rilievo e per alcuni è soltanto una “sarabanda di immagini” che si succedono in maniera più o meno casuale. Altri ritengono invece che nasconda un messaggio preciso, se non una pluralità di contenuti. Un aiuto per decodificare le illustrazioni viene direttamente da Jacques Le Goff, considerato uno dei massimi conoscitori della mentalità medievale.
Professore all’École des hautes études en sciences sociales di Parigi e membro di primo piano del gruppo delle Annales, nel 2002-2003 sceglie di persona una cinquantina di opere per una rassegna di portata europea allestita proprio a Parma. Egli spiega che nel pensiero dell’età di mezzo ogni oggetto materiale è ritenuto come la figurazione di qualcosa che gli corrisponde su un piano più elevato. Il simbolismo è insomma universale e il riflettere costituisce un’ininterrotta scoperta di significati nascosti, una continua ierofania.
Il maggiore serbatoio di spunti è la natura. Minerali, regno vegetale e bestiari sono tutte tessere di questo arcano puzzle. Le pietre preziose, ad esempio, colpiscono la sensibilità per il colore ed evocano i miti della ricchezza. Alberi e fiori vengono richiamati sulla scia dei dettami biblici. Il mondo animale trabocca di esemplari esotici, leggendari e mostruosi, che solleticano il gusto per la stravaganza. Ed è soprattutto l’universo del male. Le fiere favolose tipo aspide, basilisco, drago e grifo sono tutte demoniache, vere effigi di satana. Lo struzzo che depone le uova nella sabbia e dimentica di covarle è la sembianza del peccatore che dimentica i doveri verso Dio. Il caprone è l’emblema della lascivia. Lo scorpione che punge con la coda rappresenta la falsità. Il re della foresta e il liocorno esprimono sigle più problematiche. Incarnazioni della forza e della purezza, possono anche indicare violenza e ipocrisia. Quanto al cane, mentre la tradizione antica lo classifica come una riproduzione dell’impudicizia, l’era feudale lo riabilita come essere dignitoso, indispensabile compagno del padrone nella caccia e garanzia della fedeltà, la più considerata fra le virtù dell’epoca.
– L’anticipazione di Dante
Nel caso specifico i tentativi esegetici si scontrano con due difficoltà sovrapposte. Dapprima occorre stabilire l’accezione d’ogni fotogramma, ed è già impresa non da poco. Le icone incise nella pietra, infatti, includono spesso e volentieri creature delle categorie meno univoche. A complicare ulteriormente le cose, si registra una ripetizione di motivi, specie per quanto concerne gli esseri ibridi come le sirene o i centauri. I quali, nell’immaginario collettivo antico, sono il massimo dell’ambiguità. Somigliano agli uomini dal cuore falso e doppio.
Hanno le apparenze della devozione, ma la sostanza di avversari ed eretici. Come questi, secondo il Physiologus, esprimono un’interna dissociazione. Il padre della lingua italiana li colloca nell’inferno a guardia dei tiranni. Il medioevo li ritiene diavoli pericolosi e li ritrae con i capelli in fiamme, per lo più armati, soprattutto di freccia e arco pronto a scoccare. Spesso l’obiettivo è una colomba o una cerbiatta, entrambe figurazioni dell’anima e facili prede trascinate via dopo la cattura.
In secondo luogo entra in gioco la sintassi, ossia l’interrelazione tra i singoli lacerti e il discorso d’insieme. Il risultato è che le inchieste sono molteplici, ma a volte assumono i contorni della forzatura o comunque non convincono fino in fondo. C’è ad esempio la suggestiva teoria secondo cui la striscia lapidea anticipa di quasi un secolo il primo canto della Divina Commedia dantesca. L’Alighieri racconta il suo smarrimento in una oscura selva e l’incontro con tre fiere, che cercano d’impedirgli la fuga dal peccato. Alla fine incontra Virgilio, che annuncia il profetico arrivo del veltro, dietro il quale si cela un salvatore sovrannaturale o qualche personaggio storico: un papa, un imperatore, Cangrande della Scala o lo scrittore in persona. Ebbene il “filmato”, che inizia sulla destra dell’ingresso meridionale e conta in tutto 79 riquadri, nel secondo ritrae il leone, nel ventesimo la lupa e nel trentanovesimo la lonza. Sono, anche se non in quest’ordine preciso, le stesse belve del poema, simboli rispettivamente della superbia, dell’avarizia e della lussuria. A completare la scena, proprio l’ultima formella rappresenta un cane da caccia. Ora appare purtroppo un po’ sbrecciato, ma è appunto il fatidico veltro.
Prima di chiudere è quasi d’obbligo ricordare una curiosità forse un po’ frivola, ma uscita alcuni anni or sono da una minuziosa ricerca del docente universitario John Dancer. Il quale, deragliando rispetto alle austere investigazioni di tanti autorevoli predecessori, arriva a sostenere l’ardita quanto paradossale teoria secondo cui proprio alla conformazione del sacro edificio si deve uno dei piatti di cui va orgogliosa la cucina emiliana: il tortello. Egli si basa sullo studio esoterico delle misure della struttura, effettuato con sofisticati algoritmi e complessi calcoli matematici. A suo dire, il numero su cui si fonda tutta la costruzione è il 180. Di qui, attraverso una serie di formule che solo gli specialisti sono in grado di seguire e apprezzare, approda al capitello antelamico. Questo sarebbe il modello dell’involtino di pasta all’uovo, ripieno di ricotta, spinaci e formaggi. Il portale, invece, costituisce la sua prima sagoma e la geometria variabile a onde rappresenta la cresta, la corona, la plasticità del tegumento.
(Seconda parte – fine)
Testo e foto di Lorenzo Iseppi
– Informazioni e didascalie
Didascalie:
- La formella con il segno astrologico del sagittario
- Creatura ibrida di difficile interpretazione
- La ripetuta immagine del centauro
- Enigmatico esemplare anfibio
- Il cane, la cui presenza richiama il fatidico veltro di cui parla l’Alighieri nel primo canto dell’Inferno
- La capra che bruca un arbusto