Benedetto Antelami nasce intorno al 1150 e scompare verso il 1230. Gli studiosi più accreditati sostengono che appartiene a una maestranza di costruttori civili e religiosi originaria della Val d’Intelvi, sul lago di Como. Procedono però con estrema cautela, data l’esiguità d’informazioni sul personaggio. Piuttosto che inseguire le tracce delle sue origini preferiscono sottolineare la vasta esperienza culturale di cui si dimostra dotato e che lo consacra cittadino del mondo. Geza de Francovich azzarda le probabili tappe della sua evoluzione artistica: la Provenza, Santiago di Compostella, Saint Denis e Chartres, Laon, Vaucelle e Braisne. Sicuramente nel 1178 è a Parma, dove firma il rilievo con la Deposizione visibile nel transetto destro del duomo. Ed è ancora ospite della città emiliana nel 1196, quando inizia i lavori del celebre battistero.
Lo attesta una scritta incisa sull’ingresso, che ricorda la data inaugurale in modo curioso, dicendo che bisogna togliere per due volte due anni al 1200. E comunque, secondo Goffredo Rosati, qui c’è già tutto l’autore maturo: l’estro inesauribile, l’analitica osservazione del vero, la poderosa energia astrattiva, la capacità di subordinare i singoli particolari alla visione d’insieme, l’attitudine a cogliere gli aspetti più quotidiani del reale e, dopo averli liberati dei limiti aneddotici, farli assurgere a valori celestiali.
L’embargo di Ezzelino
L’edificio è formato da un altissimo basamento di marmo veronese in due cromie: bianca e rossa. I materiali arrivano per via d’acqua utilizzando l’Adige, il Po e la fitta rete di canali navigabili che collegano i due fiumi. Alcuni di questi risalgono addirittura ai tempi di Scauro, ossia al 109 a.C., e sono frutto delle progressive azioni di bonifica dei terreni paludosi. Esistono anzi documenti che comprovano come a un certo punto il monumento rischi di rimanere incompiuto. Nel 1248, infatti, Ezzelino da Romano ordina l’embargo totale per le rocce ornamentali che giungono dal Veneto. Il provvedimento è dettato da una vera e propria ritorsione contro la città, che ha osato sfidare e sconfiggere Federico II. Fortunatamente si tratta d’una interruzione abbastanza breve. E così nel 1259 il centro padano può provvedere all’ultimazione dell’impresa, che nelle non sempre velate intenzioni vorrebbe sfidare con un fabbricato di colore acceso il coevo e candido confratello di Pisa. La consacrazione avviene nel 1270, anche se il coronamento a balaustra si ha soltanto nel 1302. La fama non tarda molto ad arrivare e cresce in continuazione, tanto che nel 1507 Andrea Baiardi lo cita nel poema in ottave Phylogine definendolo prima “stupendo edifizio” e poi, con la rima, “il più bel viso posto a quell’uffizio”.
L’interno è ornato di pitture, che coprono le pareti e la cupola ogivale, la cui decorazione propone un lungo percorso attraverso le sacre scritture. Ci sono poi le sculture di due stagioni, che rappresentano forse la primavera e sicuramente l’inverno, ritratto come un vecchierello a piedi nudi e intirizzito dal freddo. Le altre sono andate perdute o non sono mai state eseguite. In compenso esiste l’intero ciclo dei mesi, anche se la collocazione non è quella concepita dall’autore. Ideati per una struttura unitaria, dovrebbero figurare su un portale destinato alla facciata della vicina cattedrale. Infatti le statue sono a pieno rilievo su lastre dalla sezione a “C”, concepite per essere immorsate a muro. Inoltre i pezzi risultano modellati per essere visti di scorcio e sovrapposti, dato che molti piedistalli sono recisi a semicerchio. Creazioni analoghe si possono osservare nella serie dei portali derivati da quello parmense, prototipo riconosciuto nell’intera area settentrionale con propaggini che arrivano fino alla terra dalmata. I più vicini e chiaramente similari sono i manufatti ancor oggi inseriti a fregio continuo sul protiro del duomo di Cremona. Attribuiti a un magister attivo intorno al 1215, riprendono senza ombra di dubbio gli schemi compositivi antelamici, certamente già conosciuti.
La fattura esprime un’intensissima vivacità nel ritrarre i gesti e gli atteggiamenti delle 12 porzioni dell’anno e sembrano come un ultimo, riverito omaggio dell’arte romanica all’operoso universo contadino, umile protagonista della rinascita economica successiva al Mille. Particolarmente lodate sono alcune personificazioni: Gennaio che raccoglie le vecchie e stanche membra sotto l’ampio tabarro e si fissa in un’assorta attesa, Febbraio che vanga sormontato da due pesci, Maggio eretto sul poderoso cavallo, Giugno impegnato nel faticoso rito della mietitura, Agosto intento a battere con i mazzuoli le cerchiature della botte per la vicina vendemmia, Settembre che stacca i grappoli dai tralci per deporli in una cesta già ricolma. Sotto di lui compare il segno della Libra, una bimbetta che regge con la sinistra il supporto della bilancia. Al centro dell’ottagono, infine, poggia su due gradini la maestosa vasca monolitica a immersione. Ricavata da un unico blocco, non si è ancora capito bene come sia avvenuta la collocazione dell’enorme manufatto, quasi sicuramente inserito a lavori conclusi.
La novella di Barlaam
Ma gli enigmi maggiori sono concentrati all’esterno. Il complesso ha tre portali. Uno si apre sul lato settentrionale ed è chiamato della Vergine. Il secondo, che guarda a occidente, è detto del Giudizio e, per le regole liturgiche, costituisce l’ingresso principale. Il terzo, definito della Vita, è senza dubbio il più semplice. Evocano rispettivamente la nascita di Cristo, il suo ritorno per giudicare gli uomini e la possibilità di salvezza dalle tentazioni demoniache. L’ultimo, tuttavia, si differenzia dagli altri per la straordinarietà del contenuto. Nella lunetta c’è un bassorilievo che contiene una rappresentazione allegorica dell’esistenza umana. Al centro, tra i rami di un albero, siede un giovinetto con i piedi appoggiati al tronco.
La mano mancina estrae del miele da un alveare e l’altra lo porta alla bocca. Intanto, però, due roditori non facilmente definibili cercano di recidere le radici della pianta, mentre in basso un drago che sputa fiamme attende minaccioso che il ragazzo precipiti giù. Ai lati della pianta si vedono 4 tondi. L’inferiore a sinistra mostra il carro del sole trainato da due cavalli. Apollo impugna una frusta e punta verso la notte, quasi a voler fugare le ultime tenebre. Il superiore ritrae un profilo maschile che rappresenta il giorno. Nel medaglione in basso a destra si nota il cocchio della luna mosso da due tori, che Diana stimola con un pungolo. Intorno sono disposti due fanciulli nudi che suonano delle trombe e due bimbetti vestiti che cercano con dei bastoni di frenare la veloce corsa della biga. In quello più in alto si scorge la notte con una fiaccola e dietro la testa di un toro.
Il tessuto simbolico sembra quasi scontato e ricorda che l’esilio terreno è incessantemente consunto dall’implacabile incalzare del tempo, mentre le fauci dell’inferno attendono chi ha preferito la dolcezza dei piaceri effimeri al vero bene. In ogni modo i protagonisti del quadro non sono un’invenzione dell’artista. Prescindendo dai miti pescati tra i tesori della civiltà classica, lo scorcio ricalca fedelmente il succo d’un romanzo conosciuto nell’Europa occidentale a partire almeno dal X secolo. Si tratta dell’adattamento ellenico d’una leggenda popolare che parla di Josafat, figlio del re indiano Abenner. Costui decide di tenere il figlio nella bambagia, o meglio in un luogo di delizie, per evitare che subisca le sofferenze del mondo. Ma, nonostante tutte le precauzioni del padre, a un certo punto il principe incontra le cruciali testimonianze dell’infermità, della vecchiaia e della morte. E, incalzato dagli interrogativi che sorgono spontanei di fronte alle prove del dolore, sotto la guida dell’eremita Barlaam scopre la vita non edulcorata abbracciando la verità evangelica.
Un brano del libro, narrato dal maestro spirituale al nobile, racconta d’un uomo che, alla vista d’un unicorno imbizzarrito, fugge via a gambe levate ma finisce sul ciglio d’un burrone. Si aggrappa a un fuscello e pensa che da quel momento in poi può stare tranquillo. Ma, guardando bene, vede due sorci che stanno rosicchiando le radici dell’arbusto al quale è sospeso. Anzi, sono proprio sul punto di troncarle di netto. Allora scruta in fondo al burrone e scorge un mostro orribile, che spira fuoco dalle narici. Ha un aspetto torvo e minaccioso, spalanca ferocemente le fauci e non vede l’ora di divorarlo. A quel punto aguzza lo sguardo per esaminare la base d’appoggio su cui tiene puntellati i piedi. Nota quattro teste d’aspidi che si protendono fuori dalla parete rocciosa cui si tiene avvinghiato. Levando però gli occhi in alto, scopre che dai ramoscelli della pianta stilla qualche goccia di nettare. Allora cessa di preoccuparsi dei pericoli che lo circondano e si gusta in santa pace la zuccherata ghiottoneria. Orbene, l’aristocratico al quale la vicenda viene riportata non è altri che Siddharta. In sostanza, si è al cospetto della trasposizione in chiave cristiana della religione buddista.
Testo e foto di Lorenzo Iseppi
Didascalie:
- Il battistero di Parma, i cui lavori iniziano nel 1196
- La Deposizione
- Il loggiato del monumento antelamico
- Uno scorcio dell’interno
- Il portale che guarda a settentrione
- La lunetta con la novella buddista di Barlaam
- Una porzione dello zooforo, che copre 7 degli 8 lati