Non sappiamo quanti fra i lettori abituali di ALIBI Online lo conoscano: Eraldo Bernocchi è un musicista fra i più attivi della scena elettronica internazionale e si muove in molte direzioni (pure banalmente geografiche, ci torneremo): produzione, audiovisivi, musiche per film o documentari etc.

Eraldo, l’estensione dei tuoi orizzonti musicali è oggettivamente impressionante: dal metal all’industrial all’ambient e loro infinite articolazioni. Attitudine non comune, che fa il paio con la capacità di suonare con musicisti all’apparenza inconciliabili fra loro. Con chi stai collaborando in queste settimane?
Ho finito da poco l’ultimo disco del mio progetto storico e a cui tengo tantissimo, Sigillum S, insieme a Paolo Bandera e Bruno Dorella. Sto lavorando al debutto di Phonolab, il duo che ho con il produttore dub Gaudi, a quello di Dakhma, un altro duo ma questa volta con Igor Cavalera, ex batterista dei Sepultura. E sto iniziando a lavorare al terzo album insieme a Hoshiko Yamane dei Tangerine Dream. C’è dell’altro ma non posso parlarne al momento.
Peraltro, il tuo sito personale è direi assai sobrio rispetto all’ampiezza del tuo lavoro, una tale mole di imprese che davvero non è semplice districarvisi.
Il mio sito – minimale, quasi ascetico, ridotto all’essenziale – è il riflesso di una certa indolenza: raramente aggiornato, lasciato spesso a languire nel suo destino digitale. A volte lo abbandono del tutto, per poi riesumarlo a intervalli irregolari, nel tentativo di dargli una parvenza di vitalità. Sono consapevole dell’importanza di avere un sito web, di costruire una presenza online; so bene quanto conti, oggi. Ma se c’è qualcosa che detesto profondamente in questo è ostentare successi, collaborazioni, esperienze.
In un concerto cui ho avuto la fortuna di assistere la scorsa estate, un duo con Rita Marcotulli a Roma, mi ha colpito la capacità in certi momenti di intrecciare con una discrezione quasi rarefatta il tuo sound elettronico con l’approccio più convenzionale della nota jazzista romana. Sembrava tutto facile, ma sospetto che non lo fosse.
Non mi chiedo mai quanto una collaborazione possa risultare difficile o meno. Una volta stabiliti i confini entro cui dialogare, il resto scorre quasi automaticamente. C’è sempre la possibilità che qualcosa non funzioni, e in quel caso è meglio abbandonare il progetto subito, prima di scoprire sul palco quanto la comunicazione sia fallimentare.
Suonare con Rita è tutt’altra cosa: un piacere puro, raro. È aperta, disponibile a qualsiasi sperimentazione, qualità non scontata, soprattutto in ambito jazz. La prossima volta vogliamo spingerci ancora oltre, lavorare su ritmiche più complesse, andare più in profondità. Rita è perfetta per questo tipo di approccio: ogni volta che le propongo qualcosa, accetta la sfida e rilancia con idee che mi sorprendono e mi stimolano.
La differenza tra noi è netta, impossibile non notarla. Io vengo da un percorso autodidatta, dal punk e dal metal; lei ha una formazione classica, è cresciuta con maestri come Morricone. Ma forse potrebbe essere proprio questa distanza a rendere la nostra collaborazione così stimolante.

Quel che mi pare di capire è che l’agilità con cui partecipi a progetti così eterogenei si manifesta spesso nel segno dell’improvvisazione. Vale sempre? Penso al caso di musicisti a me particolarmente cari, come Harold Budd o Roedelius.
Non vale sempre. Certo, ci sono jazzisti che hanno fatto dell’improvvisazione una lingua globale – non è il mio caso. Mi piace che ci sia una parte di improvvisazione, ma deve partire da qualcosa di solido, da un linguaggio comune che abbia senso già in partenza. Detesto quell’approccio del “vediamo che accade”.
L’ho usato, anni fa, nei primi esperimenti con Sigillum S: lì funzionava, come rottura deliberata, come negazione di ogni regola. Ma oggi non riesco più. Ho bisogno di punti fermi, anche solo una ritmica o un giro di basso cui poter tornare nel corso o alla fine del brano.
Differenze nel lavoro fra studio e live?
In studio e dal vivo lavoro per “temi”. In questo senso, il mio approccio è forse più vicino al jazz che al rock o all’elettronica. Un tema non è necessariamente una melodia: potrebbe essere un suono, un campionamento, una struttura ritmica appena accennata. Una volta trovato il tema, ci lavoro, lo smonto, lo distorco, lo trasfiguro e lo lascio andare per un po’ ma alla fine ci torno sempre.
Mi affascina questa circolarità: una storia che inizia e finisce nello stesso punto e in qualche modo si imprima nella memoria, nel cuore. Prima di tutto nel mio. Ciò che faccio deve avere un significato per me, deve lasciare un segno. Se poi riesce a toccare anche gli altri, a rimanere con loro, sono ancora più felice.
L’idea di lasciare tutto al caso non mi appartiene. Anche nell’improvvisazione c’è una logica, una disciplina. Non è caos puro, ma un modo per creare un equilibrio dinamico tra il conosciuto e l’inaspettato. E questo equilibrio, almeno per me, nasce sempre da un centro, da un tema. È lì che trovo la mia libertà: in quel sottile gioco tra il costruire e il lasciare andare, tra il trattenere e il permettere al suono di respirare.
Cos’è che trovi di più interessante nell’elettronica in questi ultimi tempi?
È un periodo in cui faccio fatica ad ascoltare altro perché passo ore davanti ai monitor in studio. Ascolto soprattutto drone music, noise e metal estremo ma non mi ci metto più di tanto… quando passi ore davanti alle casse, ti passa un po’ la voglia di metterti ad ascoltare musica. Mentirei se ti facessi dei nomi. I due dischi che ho ascoltato di più nell’ultimo anno sono gli ultimi album degli Arab Strap e degli Slowdive.
Una curiosità che nasce da un interesse tutto personale: cosa pensi della scena che si definiva IDM, intendo segnatamente Aphex Twin, Autechre e Boards of Canada?
Mi piaceva, anche se alla fine un po’ mi ha stancato. Autechre rimangono una spanna sopra, almeno per me. Aphex è ok, ti piace o non ti piace. Più divertente dal vivo ormai. BOC mi piacciono da sempre. Sono i più cinematografici, quindi più affini a me.
Da diversi anni vivi a Londra, dove mi pare ti occupi anche di una label che hai fondato. Di lì ti muovi per il mondo per concerti e altri progetti, direi.
In realtà mi occupo poco della label. È il mio socio, Giacomo Bruzzo, a gestirla principalmente: io, onestamente, non avrei il tempo materiale per farlo. È una questione di priorità. Mi trovo spesso a osservare la scena musicale locale con un misto di ammirazione e curiosità: vedo una miriade di locali, a volte minuscoli, che però offrono una piattaforma reale per chi inizia a suonare.
Non importa quanto piccola sia la venue, c’è sempre qualcuno disposto a creare uno spazio per la musica, e per un pubblico che paga per ascoltarla. Molta professionalità. Anche le serate più alternative, apparentemente disordinate, sono spesso organizzate con cura, senza lasciare nulla al caso. Si tratta di rispetto.
Cosa vedi in giro che a tuo avviso manca nell’ambiente dell’elettronica italiana?
All’elettronica italiana non manca nulla. È sempre stata valida, creativa, innovativa, e finalmente si sta facendo conoscere un po’ di più oltre i confini nazionali. Penso, ad esempio, al numero crescente di giovani donne che si sono affacciate sulla scena, proponendo lavori di una qualità sorprendente – Camilla Pisani, Idra, Shedir (Martina Betti).
Spero sempre che gli artisti italiani riescano a farsi sentire di più all’estero, non per una questione di campanilismo ovvio, solo, vedo molto talento in Italia, molte voci interessanti che però rischiano di restare inascoltate. È una questione di visibilità, di opportunità.
Conosco l’insofferenza che nutri per questo Paese (totalmente condivisa, va da sé). Ne riassumeresti i motivi principali in poche righe (ma se preferisci anche in tre bestemmie)?
La mia è insofferenza mista a una sorta di rabbia perché potremmo fare molto di più. Se parliamo di musica, è sempre stato tutto piuttosto derivativo. Salvo qualche eccezione: il cantautorato rimane una delle poche autentiche creature nate su questo suolo, insieme a un po’ di progressive e poco altro.
Ho collaborato, e collaboro con artisti italiani, principalmente con quelli che hanno trasformato la loro italianità in una sorta di esorcismo culturale. Penso a Raiz, a Ferretti, ad altri ancora. Alla fine però, è stato inevitabile andare a cercare altrove, fuori dai confini.
Quando ho iniziato a lavorare con artisti stranieri sono passato dall’essere “quello che fa solo rumore” al più prestigioso “quello che lavora con Tizio, Caio, eccetera”. E infine “Bernocchi, un pilastro della sperimentazione italiana, riconosciuto persino a livello internazionale”. Sei quello che sei perché lavori con certe persone, non per quello che vali: il provincialismo italico all’ennesima potenza.
E qui si va al discorso generale.
Un amalgama opprimente di spocchia, arroganza, storia mal digerita, cultura in via di estinzione, cattolicesimo, fascismo nero o rosso. Un’inamovibilità culturale senza pari. L’italiano attraversa il mondo convinto di avere sempre ragione, che, in un modo o nell’altro, le cose funzioneranno comunque. Non si concede nemmeno la fatica di verificare se esistano alternative più lungimiranti.
Questa pigrizia, questa inerzia, è strutturale. Il mondo scorre accanto a noi, ci supera, e l’italiano, dalla sua finestra, irride tutto ciò che vede. Senza mai scendere in strada per andare a vedere che accade. Senza mai mettersi in gioco davvero.
Prendi però ciò che ti dico con le pinze, so di essere tranchant. A Londra sto bene ma se fossi in Giappone probabilmente starei meglio. Ho necessità di punti fermi, regole precise, sistemi che funzionino in modo che un ordinato “fuori” possa contrastare il mio caotico “dentro”.
Restano, d’altro canto, un’elasticità e una creatività senza pari che in sistemi funzionanti, penso alla ricerca scientifica, fanno la fortuna di molti italiani all’estero.
Hai collaborato anche con Giovanni Lindo Ferretti, assai caro al nostro direttore.
Certo. Spero un giorno di poterlo rifare. Adoro lavorare con Giovanni. Quando scrive ha la capacità di sintetizzare il mondo in una frase. È un dono straordinario e se lo unisci alla sua voce abrasiva, il mix è inarrivabile.
So dei tuoi viaggi e del tuo interesse per l’Estremo Oriente. Puoi dirci se vi riconosci peculiari influenze culturali e segnatamente musicali?
Sicuramente l’Oriente ha segnato il mio essere in modo indelebile. Da mille punti di vista, sonori, culturali. I colori, gli odori. Il Giappone è forse il luogo che mi ha segnato maggiormente. Sono 25 anni che ci vado appena posso. Nel tempo ho iniziato a lavorare sempre di più con artisti giapponesi. Amo il loro rigore, la loro follia organizzata e quella incredibile voglia di rompere le regole pur restando ancorati culturalmente alla loro terra.
È accaduto senza che me accorgessi ma alla fine almeno metà delle persone con cui collaboro è giapponese. Mi piace la loro creatività, unita a una fortissima autocritica, ciò che rende la loro arte – musica compresa – inarrivabile (come la loro capacità di sintesi, la stessa di Ferretti).
Per chiudere, direi che l’Oriente si evolve a velocità supersonica restando ancorato alle proprie tradizioni, mentre al contrario, l’Occidente, per dirla con Houellebecq, pare voglia suicidarsi. Aggiungo che però non ne ha il coraggio, e resta in un limbo culturale sempre più confuso. Non morirò in Occidente, di questo sono certo.
Fra le tue attività rileva anche la collaborazione con marchi musicali. Ho potuto verificare di persona la qualità dell’ultimo, bellissimo synth della Polyend, cui hai prestato il tuo contributo per la messa a punto di alcuni preset. Che tipo di stimoli artistici ne ricavi a parte quelli, presumibilmente, economici.
Prima di qualsiasi “musica” adoro il suono, come nucleo fondante di un mondo di sensazioni. Mi viene quasi naturale lavorare alla programmazione di preset o suoni per synth, piuttosto che campioni. Lo trovo stimolante.
Vengo chiamato per ciò che sono, non mi viene quasi mai chiesto di fare nulla di diverso dal mio mondo, quindi in realtà programmo ciò che vorrei ascoltare nella mia musica. Creo colori da usare per comporre. È stimolante.
La parte economica è spesso inesistente. Lo scambio reale è la visibilità. Chi fa ciò che faccio io deve sempre inventarsi modi nuovi per restare a galla, specialmente oggi che tutto è veloce, e vale due secondi su Instagram. Macchine bellissime e visibilità. Ci sono anche volte in cui vengo regolarmente pagato ma non immaginare chissà di che cifre si parli.
Per ultimo Eraldo, noi qui scriviamo molto di libri. Hai dei riferimenti letterari precisi, autori che leggi con particolare interesse?
Per una lista ti direi che l’opera di Lautréamont, I canti di Maldoror, rimane la mia bibbia. Aggiungo Motel Chronicles di Sam Shepard; poi adoro Kraus, Schopenhauer, Mishima, Houellebecq. Montale, Cioran. Come per la musica, dipende molto dal momento che sto vivendo ciò che leggo. Ultimamente sono entrato nella spirale degli scrittori noir giapponesi, tipo Akutagawa o Matsumoto. Asciuttissimi e taglienti.
Spero ti riascolteremo presto in Italia.
Lo spero anche io.
Michele Lupo