Parte da una parola impegnativa “Exmachina. Storia musicale della nostra estinzione 1992 – ∞”, l’ultimo libro di Valerio Mattioli, già autore di Superonda e Remoria, e come quest’ultimo uscito per minimum fax: beatitudine.
È quella che sembravano promettere la collina verde sotto il cielo azzurro dello schermo di Windows XP, e l’immagine di copertina, per certi versi antitetica, dell’album Artificial Intelligence, compilation dell’etichetta Warp, che dette il via alla stagione magnifica della IDM (Intelligent Dance Music), declinazione per molti – fra cui direi l’autore del libro e di questa nota – della musica elettronica più rapinosa degli ultimi trent’anni.
Immagini di paesaggi bucolici emendati da qualsiasi cascame umano o di individui (postumani?) chiusi nella loro cameretta davanti a uno stereo, convergevano verso la terra promessa di “una pace dei sensi” non sempre conquistata o pagata al caro prezzo di un rischio serissimo – peraltro accettato, e in taluni casi, accelerato, di farla finita con l’uomo e farsi inglobare dalla Macchina una volta e per sempre – amen.
L’orizzonte culturale che stava sullo sfondo era ricco di stimoli contraddittori: vagheggi californiani (libertari ma liberisti), cibernetica, tecnognosi, fantascienza, echi di psichedelia che entravano in rotta di collo perché incombeva la sensazione che si fosse arrivati a un punto di non ritorno. Alla fine del millennio la tecnologia non appariva più il mezzo ma “il contenuto stesso, capace di avvolgere in una soffice nube di salda fiducia nell’avvenire” – un futuro in cui l’algoritmo l’avrebbe fatta da padrone, quello sì, ma non necessariamente nel clima edenico di cui si diceva all’inizio.
Sarà comunque in questa nuova versione di “mondo nuovo” che si muoverà la techno (“musica della Macchina per definizione”), concepita per ballare, una “musica come funzione” scriveva David Toop nel bellissimo Oceano di suono. I suoi teorici però erano altri; l’afrofuturista Kodwo Eshun scriveva che sì, “è la macchina a forzare la musica in direzioni inumane” ma non c’era da dolersene.
Al contrario, chiosa Mattioli, proprio per questo lì covava la possibilità di “liberarsi dal corpo”. Era la stagione dei rave, e i suoi mentori prendevano per le corna la fine dell’Umanesimo: le danze scomposte, parossistiche dei rave hardcore (più che il ballo noiosamente squadrato di Detroit), smembravano letteralmente “articolazioni e tessuti connettivi oltre il proprio recinto di sicurezza, con arti, mani, gambe e piedi disegnavano forme e figure umanamente inconcepibili”.
Fino a che qualcuno non ne ebbe abbastanza: con il peraltro non sempre irresistibile Artificial Intelligence, una diversa musica elettronica (l’IDM) inaugurava una stagione cui occorse del tempo per trovare un nome, una definizione, e in ultimo la Trimurti che ne avrebbe presieduto la seducente, bizzarra mitologia – paradosso che l’autore segnala puntualmente: lontani dal glamour del rock, distanti dallo stantio immaginario del suo tempo migliore, i tre nomi sui quali giustamente si concentra divennero volenti o nolenti (e ancora in parte sono) oggetto di culti assai meno rumorosi e popolari di quelli rockettari ma non meno ostinati.
Parliamo dell’irlandese Aphex Twin (nome vero Richard D. James, cresciuto in Cornovaglia, regione che molto nutrimento ha dato ai suoi miti), degli Autechre (un severo, rigorosissimo duo di Manchester), e degli scozzesi Boards of Canada (ci volle del tempo, dopo anni di reticenze, criptiche fole e leggende varie per scoprire che si trattava di due fratelli).
Ora, le suggestioni ermeneutiche a disposizione sono molte, specie per i primi due (peraltro Aphex e gli Autechre erano già presenti nell’album citato all’inizio) tuttavia, semplificando ma non troppo, Mattioli ne individua in ognuno una cifra peculiare: in Aphex la figura del trickster idolatrato presto come un genio funambolico e imprevedibile ma anche cazzone aduso a spararla grossa, negli Autechre la Macchina che pare cancellare e sostituirsi definitivamente all’umano, nei BOC un segreto misterico che passa attraverso la memoria di un’infanzia fantasmatica, onirica, archetipica.
Il racconto di Mattioli è di una ricchezza smodata e impossibile da riassumere in una breve recensione – alterna ricostruzioni biografiche, toni e movenze da personal essay, analisi musicale, riflessioni filosofiche e politiche, senza mai dimenticare il contributo teorico di alcuni nomi da cui pure prende le distanze.
Perché, si tratti del citato Eshun, o di Mark Fischer, e parzialmente di Simon Reynolds – autore dell’introduzione – la diffidenza verso l’IDM è marcata (molto ideologica in Eshun, refrattario nei confronti di una musica stanca dell’imperativo di ballare – inspiegabile invece per Fisher che non vede – non sente – quanto difficilmente una musica sia potuta essere più vicina alla sua hauntology di quella firmata Boards of Canada – ancora Reynolds definì il loro meraviglioso Music Has the Right to Children “il più grande disco psichedelico degli anni Novanta”).
Dalla serie degli EP Analogue Bubblebath ai Selected Ambient Works, l’”ambient-techno” di Aphex (il trickster contraddittorio, tamarro e sublime insieme – leggere il libro per capire: è una biografia divertente) che torceva spasmodicamente i ritmi della techno sovrapponendovi melodie incongrue, elegiache, paradisiache, si acclimatava fortunatamente sempre più nel primo che nel secondo termine. Specie dal secondo volume dei Selected Ambient Works, o nel bistrattato durks, dove nonostante le drums machine non di rado i suoni si fanno più incorporei – ecco, per le melodie di pianoforte come stranianti carillon non sarei sicuro come Mattioli di considerarle parenti strette di una “muzak alla Einaudi”.
Ci sono melodie più banali nei primi, più celebrati album, che il tipico contrasto con le ritmiche assurde non cancella: non so se Aphex l’abbia tenuta in considerazione ma (sarà che ho i miei anni e sarò afflitto dalla retromania a cui lo stesso Reynolds dedicò un libro famoso) a me pare che nella ovvia filiazione dalla Kosmische tedesca sia di solito sottovalutata l’importanza di un altro fondamentale duo (all’inizio erano in tre), i Cluster, e segnatamente alcuni dischi solisti di Roedelius in cui trovavi suoni molto IDM ben prima che qualcuno la chiamasse così, sia nella versione macchinica degli Autechre che nello sberleffo bozzettistico del trickster o ancora in quella sognante, chimerica dei BOC.
Ma è solo con gli Autechre che arriva il trionfo dell’Automa. Di certo più rigorosi – passano per freddi e spesso lo sono (benché “freddi” lo si dica anche di musiche a loro modo assai sentimentali); Mattioli ricorda che la loro produzione la si associa volentieri a una certa architettura decostruttivista, una musica a-emozionale, sottomessa alla dittatura dell’algoritmo, in cui l’umano sembra via via sparire, non estranea all’idea di un approccio generativo, sulla scia del sempiterno Brian Eno, il quale come tutti sanno prelevò e ripropose in una direzione non proprio filologica anche il concetto di musique d’ameublement di Erik Satie e ne fece l’”apriti sesamo” per tanta buona musica e ancor più robaccia ormai da mezzo secolo a questa parte.
E se in effetti la differenza fra muzak e ambient music a volte, nella pratica, non la puoi dire con esattezza, che dischi come Incunabula o Amber non possano emozionare è tutto da discutere – lo direi anche dell’”elettronica scarnificata” di Tri Repetae, mentre senza l’aiuto di un consistente soccorso chimico è difficile reggere l’urto di Confield, e ciò che è venuto dopo: una “disumana cerebralità” in cui l’uomo stesso è ormai di troppo. Che si tratti di “programmazione non lineare”, di “sintesi granulare”, o di altri moduli compositivi sta di fatto che la musica degli Autechre ha come voluto dissolvere l’umano mentre gli ermetici BOC che essi stessi contribuirono a lanciare ne hanno cercato attraverso samples e synth l’anima arcana.
Ciò che conta nel libro di Mattioli, imperdibile per i cultori del genere, è la capacità di mostrare come queste musiche siano (state?) il luogo in cui pare essersi incisa una scansione temporale decisiva della nostra storia umana non più troppo umana: quella in cui s’invera un tellurico mutamento nel rapporto fra uomo e cervello informatico al punto da rischiare un’inversione definitiva dei termini spalancata verso il baratro di un indicibile destino della specie – non mi pare poco.
Michele Lupo
Valerio Mattioli
Exmachina
Storia musicale della nostra estinzione 1992 → ∞
Introduzione di Simon Reynolds
Minimum Fax
2022, 335 pagine
17 €
Didascalie:
- Richard D. James Album di Aphex Twin (pseudonimo di Richard D. James)
- Music Has the Right to Children di Boards of Canada
- Incunabula di Autechre