“Nella voce di un cantante si rispecchia il sole” canta Franco Battiato in Strani giorni. Nella voce dell’enigmatico cantante catanese appena scomparso, invece, si sono rispecchiate numerose generazioni nel corso di almeno 40 anni.
Sì, perché, a prescindere dall’età o dai gusti musicali, ciascuno di noi ha un brano o anche solo un passaggio di una sua canzone a cui essere legato (io, in realtà ne ho una lista così lunga da non poter essere scritta).

Il paradosso-Battiato si spiega così: pur senza essere un artista nazional popolare come, per esempio, il neo-settantenne Claudio Baglioni, senza aver riscosso i salamelecchi della critica come l’altro neo-settantenne Francesco De Gregori e, ancora, senza essere diventato un fenomeno che muove le masse come Vasco Rossi, Battiato è entrato nel cuore e nel parlato degli Italiani. Stamattina (ieri, ndr) mi ha colpito assistere sui social al fiorire di citazioni delle sue canzoni, dopo la notizia della sua morte. Tutto prescindeva dall’età, dall’estrazione sociale, o culturale. Non era iconizzazione della morte, era un’emozionante forma di sentito ringraziamento.
Ciascuno ha postato il brano che sentiva proprio, e la distribuzione delle citazioni era uniforme, senza concentrazione su un brano particolare.
Il pop di Battiato
Nella prefazione di 31 songs Nick Hornby scrive: “Chiedendomi perché così poche delle canzoni a cui tenevo mi suggerissero associazioni di idee ed emozioni, la risposta è stata ovvia: se ti piace una canzone, e ti piace abbastanza perché ti accompagni nelle varie fasi della tua vita, ogni ricordo specifico viene cancellato dall’uso”; e ancora “quando mi chiedono cosa mi piace e perché, non ho nulla da dire, se non che le adoro, e ci voglio cantare sopra, costringere altri ad ascoltarle, mettere il muso se mi accorgo che agli altri non piacciono quanto a me”.
Ecco, questo è ciò che si può dire del pop di Battiato, un pop che a volte qualcuno ha chiamato musica leggera, qualcun altro punk: canzoni che è bello ascoltare, cantandoci sopra seguendo il ritmo. Ma attenzione, limitarsi a questa definizione, sarebbe riduttivo e ingiusto. Partendo dal pop elettronico realizzato con strumenti pionieristici, Ciccio (come lo chiamavano al suo paese), ha saputo esplorare la musica, contaminandola in un’epoca (i tardi anni Settanta e i primi anni Ottanta) in cui il pop aveva indirizzi estremamente definiti e non amava le contaminazioni.
Oggi sorrido quando sento parlare della trap come di una musica che contamina la musica occidentale con le sonorità arabe. Ascoltatevi L’era del cinghiale bianco, per esempio, in cui canta con l’intonazione del muezzin, o tutto il long playing (una volta si chiamava così) L’arca di Noè in cui ogni brano è un continuo rimbalzo elaborativo fra cultura mediorientale e tradizione italiana, con citazioni anche astruse, ma tanto erudite da risultare ipnotiche.
Il gusto della sperimentazione
Un giorno Dario Fo gli disse che non amava i suoi testi, e lui gli rispose in modo irriverente “Ma a me, che cazzo me ne frega?”. E qui sta il punto: Battiato si è divertito a esplorare, a sperimentare, a provocare, finanche a farsi beffe del suo stesso pubblico, senza inseguirlo, anzi facendosi seguire confondendolo con svolte musicali (nelle quali la sua impronta è comunque riconoscibile), e testi spesso ermetici, già prima della collaborazione con Manlio Sgalambro, come quel passaggio di Prospettiva Nevskij in cui dice “e il mio maestro m’insegnò com’è difficile trovare l’alba dentro all’imbrunire”. Chissà quanti di noi si sono chiesti “Ma cosa voleva dire?”.
E, sempre come uno sberleffo, duettando con Pippo Pollina si rivolge a James Joyce, chiedendogli “James, dimmi, cosa vuoi dire con il tuo libro Finnegan’s wake?, riferendosi al delirante romanzo La veglia di Finnegan, in cui James Joyce sperimenta un linguaggio onirico-etilico, narrando il visionario hangover notturno del signor Finnegan.
Ma, pur nell’arzigogolo intellettuale, pur nel melting pot artistico, Battiato non cessa di tenere la barra al centro e, come un perfetto giullare di corte, castigat ridendo mores. Lo fa in moltissimi brani (da Povera patria, a Up patriots to arms, fino a Bandiera bianca) senza vestire i panni ieratici di un De Gregori, ma ricorrendo a staffilate efficaci, che col tempo sono diventate stigmi della situazione socio-politico-artistica italiana portatrice del populismo: “E non è colpa mia se esistono carnefici, se esiste l’imbecillità, se le panchine sono piene di gente che sta male”, oppure “Quante squallide figure che attraversano il Paese, com’è misera la vita negli abusi di potere”. Tanti hanno provato ad affibbiargli etichette politiche, senza peraltro centrare il bersaglio né da destra né da sinistra.
Filosofia in musica
Battiato è stato unico e difficilmente inquadrabile, al punto che ogni disco è estremamente diverso dall’altro. Perché, una volta raggiunto il successo con il pop elettronico, dopo aver spernacchiato Vivaldi, Beethoven, Frank Sinatra, i cori russi, la musica finto rock, la new wave italiana, il freejaz punk inglese e la nera africana, Battiato si è esibito con l’orchestra, disorientando ancora e mettendosi alla prova con temi più astratti.
E qui, a mio parere, esce l’uomo della Sicilia, la regione crogiolo culturale di quel troppo trascurato bacino pulsante di pensiero che è il Mediterraneo. Facendo filosofia della propria arte, si è orientato alla spiritualità che si manifesta in varie forme. Da Gilgamesh, la complicata opera lirica in cui narra la vita dell’uomo che cercò la saggezza e la vita eterna, a Lode all’inviolato, una riflessione retrospettiva di un uomo di fronte all’immanente; fino al brano diventato ormai un inno, la mistica E ti vengo a cercare, canzone che si vuole d’amore, ma che sembra più l’ascetica preghiera di chi sta per fondersi con il proprio Dio. Non per nulla Nanni Moretti la cita nel suo film Palombella rossa, come disperato canto d’amore per un ideale al crepuscolo.
L’amore in Battiato è sempre etereo, anche quando tocca i sensi. È agape, più che eros. La cura, per esempio, ma anche Tutto l’universo obbedisce all’amore (ennesima sterzata che lo riporta nel mondo della musica leggera, al fianco di Carmen Consoli), non parlano di passioni che degradano e logorano, ma di premure costanti che rappresentano l’essenza di quel sentimento che unisce l’umano al divino.
Così, per definire questo catanese che morendo lascia comunque un’eredità difficilmente estinguibile, dobbiamo ricorrere al titolo di un’opera di un altro siciliano di successo: Uno, nessuno, centomila. A pensarci, quando in Lode all’inviolato dice “E quanti personaggi inutili ho indossato”, viene proprio da pensare alle maschere pirandelliane.
Simone Cozzi