Questa settimana l’editoriale “L’ALIBI della domenica” è dedicato al “Sermone di Natale” di Stevenson e a una cena a Parigi.
A Pasqua ho letto “Sermone di Natale” di Robert Louis Stevenson. Può sembrare una scelta insolita e in effetti lo è, almeno per certi aspetti. Ma ve ne consiglio la lettura, anche fuori dai periodi di festa. È un testo breve e pregnante, un distillato di sapienza laica da sorseggiare con calma.

Io l’ho letto nella recente edizione pubblicata da Vita e Pensiero con il titolo di “Sermone di Natale e altri scritti religiosi”, la prefazione di Alberto Manguel e la traduzione di Giuliana Bendelli. In copertina c’è una bella opera di Tullio Pericoli: “Stevenson. Tavoli di lavoro”, acquerello e china su carta del 1989.
Una cena a Parigi
Mi è particolarmente caro questo libretto: me l’ha regalato lo stesso Manguel quando mi ha invitato a cena a Parigi all’inizio dello scorso dicembre. Io ero nella capitale francese per visitare alcune esposizioni, tra cui la mostra di Leonardo al Museo del Louvre e quella di El Greco al Grand Palais, mentre lo scrittore argentino era ospite del festival “Un week-end à l’Est”. La sera dopo la nostra cena avrebbe partecipato all’incontro “Belgrade, l’effervescence culturelle comme refuge”, con la regista Mila Turajlić, il disegnatore Enki Bilal e il romanziere Goran Petrović all’Odéon – Théâtre de l’Europe.

Sono arrivato con qualche minuto di anticipo al suo hotel, attraversando la Senna sul Pont Neuf, e nell’attesa ho fatto giusto in tempo a sfogliare un quotidiano su cui ho trovato questa folgorante massima di Mark Twain: “Ci sono tre tipi di bugie: le bugie, le bugie sfacciate e le statistiche”. Allora mi divertì, oggi la rileggo con altri occhi.
Il ristorante consigliato dal receptionist, La Boissonerie, era a pochi passi di distanza e anche senza aver prenotato, abbiamo avuto la fortuna di trovare un tavolo. Durante la cena, a base di pesce, abbiamo parlato soprattutto di libri, ma anche di Napoleone e dello stato di salute del mondo, ormai compromessa secondo Manguel (e lo diceva ben prima che scoppiasse la crisi del Coronavirus).
Io mantenevo una posizione più ottimista – o meglio: possibilista – tanto che quando gli ho chiesto di autografarmi il libro, lo scrittore vi ha apposto come dedica: “Per Saul che crede ancora a un mondo migliore”. Ricordo che perorando la causa della resilienza umana gli dissi “Avremo sempre Parigi”, citando la celebre battuta del film “Casablanca”. Beh, adesso non mi sentirei così sicuro nemmeno di questo. Continuo però a credere che ci rimarranno sempre i libri: di Stevenson e Borges e Manguel, naturalmente.
Sciascia per Stevenson
Al ristorante non ho osato scattare fotografie dei piatti che ci venivano serviti, anche se – a ben vedere – era stata proprio la mania di fotografare tutto quello che attira la mia attenzione a regalarmi quell’occasione eccezionale, consentendomi di cenare con Manguel (un giorno, magari, uno dei due racconterà l’intera storia, piuttosto curiosa). Al momento del caffè non ho saputo trattenermi e ho usato lo smartphone per immortalare la tazzina di caffè, peraltro non memorabile.

Tornando al mio hotel ho scelto di passare per il Pont des Arts. Avevo di fronte a me il Louvre e il faro della Tour Eiffel girava un potente fascio di luce su tutta Parigi. Ho telefonato a mia moglie a casa per raccontarle della cena.
In camera ho cercato su internet una libreria che vendesse libri in italiano. Sul sito de “La libreria” ho trovato “Racconti con figure” di Antonio Tabucchi e mi è sembrato la scelta ideale per ricambiare il dono di Manguel, ma quando sono andato nel negozio in rue du Faubourg Poissonnière ho scoperto che il libro non c’era. La proprietaria mi ha spiegato che il catalogo online non è affidabile perché non viene aggiornato in tempo reale. Allora ho scelto lo scrittore italiano più “borgesiano” di tutti, Leonardo Sciascia, con le sue “Cronachette”. Un altro libro dall’elevato peso specifico. Al termine dell’incontro su Belgrado all’Odéon, ho aspettato Manguel per salutarlo e regalargli il librino di Sciascia.
La Pasqua del Coronavirus
Quell’inizio di dicembre a Parigi rimarrà nella mia memoria, così come rimarrà scolpito in essa la Pasqua del 2020 che tutti ricorderemo come la “Pasqua del Coronavirus”. E se Natale è per tradizione il momento dei bilanci, degli sguardi rivolti indietro a controllare quanto si è perso e quanto lontani siamo rimasti dagli obiettivi che ci eravamo prefissi, questa Pasqua ha un inedito sapore dolce-amaro che invita alla riflessione. Mai come in questa occasione passione e resurrezione, sofferenza e riscatto, non appaiono come vuote parole ma sanno di vita e di morte.

Nelle pagine di “Sermone di Natale” torna diverse volte la metafora della vita come servizio militare. Contro il moralismo degli ipocriti o l’ipocrisia dei moralisti (che è lo stesso), Stevenson ci rivela che l’unico, vero, eroismo è quello della pazienza e che quella della virtù è una battaglia persa (concetto che torna anche nel testo “Pulvis et umbra”).
C’è un brano di “Sermone di Natale” che andrebbe appeso vicino al comodino per essere letto ogni sera prima di addormentarsi. Lo riporto qui sotto:
Essere onesto, essere buono; guadagnare poco e spendere meno, rendere nel complesso la famiglia più felice con la propria presenza, rinunciare quando è necessario senza amareggiarsi, avere pochi amici ma questi senza riserve – soprattutto, alle stesse ferree condizioni, preservare l’amicizia con noi stessi –: ecco l’impegno per quanto c’è di forte e di delicato in un uomo. Possiede un animo ambizioso chi desidera di più; ha uno spirito ottimista chi contempla un’impresa simile sperando nel successo. C’è in effetti nel destino umano un fattore che nessuna cecità può confutare: qualsiasi scopo ci sia destinato, non siamo nati per il successo: la sorte assegnataci è il fallimento. Così accade in ogni arte e studio, ma soprattutto nella sobria arte del vivere bene”.
Proprio a commento di questo brano Alberto Manguel scrive nella sua prefazione: “La convinzione che ogni impresa umana sia destinata al fallimento non è, per Stevenson, motivo di lamento bensì di gioia. Se non siamo destinati al successo, possiamo godere i frutti delle nostre fatiche senza sensi di colpa e senza temere punizioni, facendo qualunque cosa dobbiamo fare al meglio delle nostre capacità, apprezzando lo sforzo fisico e mentale e lo stesso cammino”.
Sono parole che rincuorano. Così, qualche giorno fa, quando ho ritrovato nel disco fisso del computer un file con la “lista delle 10 cose da fare prima dei quarant’anni”, non mi sono demoralizzato troppo nel constatare che sulla soglia dei 50 non ne ho ancora realizzata una. Sono un fallito di successo!
Saul Stucchi
Robert Louis Stevenson
Sermone di Natale e altri scritti religiosi
Prefazione di Alberto Manguel
Vita e Pensiero
2019, 100 pagine
13 €