Ottava puntata del reportage di Marco Grassano sul suo soggiorno pasquale a Creta.
Quando arrivo in fondo alla Chálidon, la galleria d’arte sta preparandosi ad aprire. Alle 10.30, come da orario, entro. La biglietteria è subito a destra; sull’altro lato sono in vendita cataloghi vari. Individuando il mio accento, uno dei due addetti, che ricorda Albert Sabin all’epoca degli studi sulla poliomielite, mi si rivolge in italiano, per domandarmi da dove arrivo. Gli rispondo che sono di Alessandria: ma non quella di Kavafis. “Ah, c’è un’Alessandria anche in Italia?” si sorprende. “Sì, fra Torino, Milano e Genova”. Mi dice di aver studiato a Bologna, che ritiene una gran bella città. Ne convengo.
Leggo, prima di tutto, il pannello introduttivo (in inglese):
Siti archeologici visti da un drone; Maratona come luogo di una quotidianità che travalica il suo fardello storico; paesaggi turbati dall’angoscia dei profughi, percorsi o abitati temporaneamente da essi negli ultimi anni; l’altopiano di Lasithi, coperto dalla rugiada della Storia; immagini pittoriche con micropaesaggi di flora endemica; luoghi alterati dal turismo e dallo sviluppo edilizio; paesaggi che hanno subito incendi; paesaggi condizionati dalla componente umida: sono solo alcuni degli elementi colti, coi loro scatti, dai 19 autori rappresentati nella mostra (prodotta dal Museo della Fotografia di Salonicco, per la curatela di Heraklís Papaioannou) avente come titolo “Storie di paesaggio”. L’esposizione vuole presentare approcci moderni al paesaggio greco, esaminandone gli aspetti naturali e periurbani come pure quelli urbani. L’accento viene posto sulle opere degli ultimi due decenni, cercando al contempo di valorizzare il lavoro di una generazione di artisti più giovani o meno affermati nel canone del paesaggio nazionale. In questo modo, vengono sottolineate sia l’ampiezza del panorama fotografico del Paese, sia l’attenzione per il paesaggio ordinario, la tutela ambientale, le relazioni del paesaggio con la storia e il mito, la lettura critica del fenomeno turistico, ecc.
L’opera dello svizzero Fred Boissonnas, all’inizio del XX secolo, e quella di Nelly, nel successivo periodo tra le due guerre, svolsero entrambe un ruolo decisivo: permeate di storia, folklore e mitologia, contribuirono a rendere il paesaggio, anche senza rovine, un caposaldo della narrazione nazionale ufficiale, e in tal senso agì pure lo spirito delle riviste illustrate dell’epoca, sulle quali cominciavano a essere pubblicate foto di paesaggio amatoriali. Nel dopoguerra, il paesaggio delle isole – in versione sia materiale che astratta – venne utilizzato come volano per il lancio del turismo di massa. Seguirono fotografi di valore, che documentarono i più diversi aspetti della fotografia di paesaggio nel Paese.”
Inizio il percorso e mi annoto alcune delle istantanee. Una ripresa aerea di Capo Sounion. Il rottame di un TIR non rimosso dopo l’incidente nel quale aveva perso la vita l’autista, come a ricordare i troppi morti sul lavoro. Il pick-up di un bracconiere, con la targa abrasa. Un monumento da realismo socialista, raffigurante qualche “autorevole” personaggio, ai piedi di un dosso sul quale sorge un laido capannone industriale. La struttura portante di un edificio incompiuto (in prospettiva, altri nelle medesime condizioni) sopra una baia: presumibile abuso edilizio. Madre e figlia sedute al tavolo – e padre in piedi dietro la porta-finestra – in un villaggio prefabbricato illegale, poi demolito. Il rione tristemente turistico di un’imprecisata cittadina cretese: autorizzato, purtroppo.
Monto al piano superiore. Un’attenzione a parte merita la foto di un sordido angolo rivierasco col giudizio lasciato – presumo su Trip Advisor – da una “signora” (le virgolette sono d’obbligo) barese, tale Cornelia T.: “Bella spiaggia, ma con venditori di merci contraffatte troppo invadenti. / Massaggiatrici thailandesi insistenti e africani sgradevoli, ostili verso le donne bianche attraenti, che fingono di vendere un qualche tipo di mercanzia. Non basta semplicemente ignorarli, e se li scacci diventano ancor più sgradevoli. TUTTI I GIORNI PER TUTTO IL GIORNO! Alcuni di questi africani predano (sic) le donne sole quando nuotano. Un’esperienza davvero spaventosa, specialmente alla luce degli ultimi fatti“.
Ma certo, se vai in vacanza in un posto così squallido, il problema principale sono gli immigrati! Presumo, tra l’altro, che la gentile madama si ritenga “attraente”, e quindi oggetto di ostilità preconcetta. Lei, invece, ostile non lo è per nulla, ah no…
Nello spazio multimediale – chiuso da tende – a fianco del “fulgido esempio di italiche virtù” sopra trascritto, si proietta una serie di diapositive: immagini di alberi e fiori ritagliate dalle nere tenebre.
Continuo all’ultimo piano. Un paesaggio collinare in fase di rinascita dopo un incendio. Le rocce denudate di una cava. Fatiscenti strutture collettive in un campeggio. Qualche ninfa contemporanea mentre si immerge in un laghetto fra i monti (“Sono i silenzi in cui si vede in ogni ombra umana che si allontana qualche disturbata Divinità“).

Un’altra donna, un po’ meno vezzosa, che si accosta a un altro specchio d’acqua, con alle spalle un piccolo bosco e, più indietro ancora, una serie di pinnacoli nudi. Un altopiano spolverato di brina; sullo sfondo, monti in cui si impigliano le nubi. Uno scorcio malamente antropizzato, coperto dalla neve: esili telai di serre senza vetri, torricelle metalliche di pompe a vento, una recinzione, una statua di Venere che sembra volersi asciugare con un telo perché appena uscita dall’acqua…
Ancora quassù, domando all’impiegata del piccolo ufficio verso strada dove si trovino i servizi igienici. Mi risponde che sono nel seminterrato, bisogna premere il pulsante “-1” dell’ascensore.
Uscendo, mi fermo ad annotare il mio commento sul registro visite: “Un modo nuovo di guardare il paesaggio, per capire come sa essere la Natura se la lasciamo intatta e come può diventare se la roviniamo“. L’addetto alla mia sinistra indica il collega di prima e osserva, con un mezzo sorriso: “Per l’italiano, ci vuole lui…”. Parlo a quest’ultimo di Luigi Ghirri, fotografo di Reggio Emilia, non lontano da Bologna, che ha insegnato davvero “un modo nuovo di guardare il paesaggio”; dico che qui si rinvengono tracce della sua lezione. Saluto tutti e vado.
Il mendicante del coniglio è appostato alla vetrina di ieri, ma senza animale.
Come spesso in questi giorni, mi fermo nel minimarket Charoto per prendere una bottiglietta di Aloe Vera con cui trangugiare le mie medicine. Ormai, trovo il prodotto a colpo sicuro, e la ragazza della cassa – pienotta, mora, capelli lisci, occhiali – mi riconosce e mi sorride.
In libreria, mi cade lo sguardo su un volume (postumo) di Patrick Leigh Fermor del quale ignoravo l’esistenza, pur conoscendo bene, tramite la cronaca di William Stanley Moss, il celebre episodio storico che vi viene rievocato: “Abducting a General – The Kreipe Operation and SOE in Crete“. Sulla quarta di copertina, le sirene tentatrici del Times Literary Supplement cantano così: “Rapire un Generale è pieno della stessa prosa ricca ed esuberante della sua trilogia“. Decido di acquistarlo. Kostas osserva che la mia scrittura non ha nulla da invidiare a quella di Fermor, e dunque me lo regala. Bellissimo complimento e graditissimo omaggio!
La Sinagoga ha ripreso gli orari delle visite guidate. Suono, mi faccio aprire e mi unisco al gruppo in attesa. La volontaria assegnataci suscita in me grande simpatia, perché, nel suo stile assai casual, ricorda Ester. Con l’età che mostra, dev’essere una studentessa: americana dalla parlata; di probabile ascendenza irlandese o scozzese per l’aspetto e per il nome Finn, riportato sul cartellino di riconoscimento dell’A.S.I. (“A” sta sicuramente per American, il resto non so).

Ci racconta la storia del tempio, fino al triste destino degli ebrei morti sulla nave silurata dagli inglesi nel 1944, al successivo abbandono della struttura e quindi alla sua resurrezione, negli ultimi venticinque anni. Ci specifica che il rito che vi si praticava era di obbedienza romaniota, una variante greca differente dalla sefardita e dall’ashkenazita.
Sfogliando il libretto delle funzioni rinvenuto sopra una panca, riconosco la mia lettura veterotestamentaria durante lo Shabbat shalom di due anni e mezzo fa: un brano dei Numeri – capitolo 15, versetti 37-41:
Il Signore parlò ancora a Moise, dicendo: Parla a’ figliuoli d’Israel, e di’ loro, che si facciano delle fimbrie a’ lembi delle lor veste, per le lor generazioni: e mettano sopra quelle fimbrie de’ lor lembi un cordone di violato. Ed abbiate quel cordone in su le fimbrie, acciocché, quando lo riguarderete, voi vi ricordiate di tutti i comandamenti del Signore, e li mettiate in opera, e non andiate guatando dietro al vostro cuore, ed agli occhi vostri, dietro a’ quali solete andar fornicando. Acciocché vi ricordiate di mettere in opera tutti i miei comandamenti, e siate santi all’Iddio vostro. Io sono il Signore Iddio vostro, che v’ho tratti fuor del paese d’Egitto, per esservi Dio. Io sono il Signore Iddio vostro.” [Nota 1]
“Ghia su, Marco!” mi accoglie vivace Kostas (ormai, mi si rivolgono in greco) e mi fa prendere posto indicandomi (“to trapezi sas…“) quello che è diventato appunto il “mio” tavolo, accanto all’ingresso della taverna.
Passa nel vicolo un bambino evidentemente zingaro, di quelli che, per racimolare qualche moneta, strimpellano la loro fisarmonica giocattolo seduti a terra nella Chálidon o nella piazza della moschea. Il cameriere gli dice che non può stare qui e, alla sua blanda protesta, gli intima di “fare della strada” (“Dromo!“).
Ordino un pasto rilassato: crocchette di zucchine, zuppa al pomodoro, mezze melanzane al forno riempite con verdure varie e con pezzetti di feta. Dolce e tsikudiá arriveranno per conto loro.
Una coppia di lingua francese, installata lungo il lato opposto del vicolo, sorride del disinvolto poliglottismo esibito da Kostas. Faccio rilevare che è come nella poesia “L’horloge“, di Baudelaire: “mon gosier de métal parle toutes les langues“.
Hanno all’incirca la mia età. Mi chiedono di dove sono, e glielo dico. Conoscono abbastanza bene la nostra lingua. Lui, Guillaume (“Guglielmo”, traduce il proprio nome), è di Tolone; lei, Laurence (“Lorenza”), è una belga di Bruxelles (e qui non posso fare a meno di raccontarle subito, con un misto di orgoglio e di commozione, i miei antichi legami con la sua terra: “Che bel sorriso… ma no, non le conosco, anche se avrebbe potuto benissimo succedere” commenta la donna, osservando la foto delle sorelle D. che le mostro sul cellulare). Si erano incontrati in Italia trentacinque anni fa (“Per me galeotta era stata invece la Spagna“, puntualizzo), e ci tornano spesso. Hanno figli già adulti, con vite indipendenti.
Li informo di aver scritto un libro su Creta, malgrado il mio lavoro sia un altro: mi occupo di acqua. Loro, invece, sono professori di lettere. Ripesco all’interno del locale e porgo a Guillaume la fotocopia delle pagine dedicate alla Argo. Lui inforca gli occhiali, legge e annuisce, commentando: “È proprio così!“. Si incaglia sulla parola “tarchiato”, ma la traduzione viene in mente alla moglie: “trapu“.
Vorrebbero vedere la Sinagoga, però non sanno dove sia. Mi offro di accompagnarli: ci sono appena stato, spiego, ne vale la pena.
Nel cortile, ritrovo Finn e la saluto. La ridotta comitiva che si forma è assistita, stavolta, da una ragazza bruna e riccia – un po’ più matura della compagna, ma sempre con accento americano – di nome Eléna (pronunciato così): quindi, verosimilmente ispanica (fosse italiana, si chiamerebbe Élena, e fosse greca Eléni). Riferisce lei pure vicissitudini storiche e caratteristiche cultuali.
Due attempate britanniche tirano in ballo il discorso della Resistenza a Creta. Mostro loro il libro di Fermor, che ben conoscono. L’autore non gode delle loro simpatie: “Secondo quel che racconta, sembra abbia fatto tutto lui!” lo criticano. Le informo di aver visto un programma della ERT dedicato a questa vicenda, dove “Paddy” fungeva da interprete col generale Kreipe traducendo in tedesco le domande del conduttore e poi in greco le risposte. “Ah, in quelle cose era senz’altro bravo…” replicano sarcastiche. Passiamo nel minuscolo, patetico cimitero e in una specie di sottoscala dove è esposta qualche colorata opera d’arte contemporanea a tema ebraico. Altre se ne possono visionare nella stanza in cima all’ufficio, salendo i gradini esterni.
Guido gli amici franco-belgi in giro per il vicolo, da un capo all’altro. Il muro sbrecciato di una casa in abbandono, con rami d’albero dietro le finestre. Una grande trattoria tipica in un cortile ravvivato dai fiori.
Ci congediamo uscendo sulla darsena, improvvisamente investiti dal sole, dalla brezza e dal blu crespo della marina.
In un negozio della via da cui si raggiunge il ghetto, acquisto un braccialettino d’argento col disco di Festo, come regalo da portare a mia figlia, e un komboloi per me.
Giro ancora un po’ tra i vichi stretti ma pieni di attività che circondano la cattedrale. Il Palazzo di Pietro completa la propria insegna in greco: To archontikó tu Petru. Distante pochi metri, una trattoria occupa l’ex spazio interno di una casa demolita.
Il mendicante ha estratto o prelevato il coniglio da dove lo teneva e lo ha posato accanto a sé, con davanti un bel cespo di insalata. Gli butto l’obolo sullo zaino e carezzo la bestiola, che mi lascia fare con aria sonnolenta.

Ancora nella Skrydlof. Prima del mercato, passo a percorrere la parallela di sinistra, per rivedere il minareto senza moschea (la base è avvolta da impalcature, per qualche restauro o consolidamento). Da lì mi inoltro fra le anguste calli, sempre suggestive perché evocano l’Alfama di Lisbona.
Proseguo a forzate mosse scacchistiche del cavallo, finendo per sboccare nella parte elevata della Sífaka, dove, all’ombra di un pergolato, sono disposti i tavolini tondi di un bar. Dalla prima, immediata scaletta scendo sul marciapiede sottostante e mi porto verso la piazza della fontana.
Qui incrocio due anziani che procedono a distanza: lei reggendosi con una stampella e trainando un carrellino della spesa; lui con una piccola sacca sulla schiena e appoggiandosi a un bastone. Li avevo già notati altre volte provenire dalla Zampeliou. Un po’ mi impietosiscono, un po’ li ammiro per la loro tenacia nel vivere.

Faccio di nuovo preparare la deliziosa spremuta di arance (portokalada); anche in questa bottega mi riconoscono e mi sorridono. Come turista devo sembrare abbastanza anomalo o atipico, per non dire bizzarro: quindi, facilmente memorizzabile.
L’uomo col coniglio ha ceduto la vetrina dell’agenzia immobiliare al suonatore di bouzouki e si è spostato appena più avanti, di nuovo senza l’animale. Lo avrà riposto da qualche parte, forse nello zaino.
Penso di tornare, dopo cinque anni, al ristorante Ellotía. Supero il negozio di dischi – di fronte al quale hanno aperto un luminoso minimarket, in cui do un’occhiata – e rasento lo slargo dei dehors, sotto il bastione Schiavo.
Mi infilo nel budello. Sul fondo, le luci del locale sono accese. Il menù esposto comprende però solo cocktails di crostacei, grigliate di carne e pesce, animali cucinati in ogni maniera. Mi ero ripromesso di non mangiare più cadaveri per il resto del soggiorno. Continuo dunque nella strettoia, diretto alla Argo. Sul cantone da cui si riguadagna la piazzetta, un muro diroccato, coperto di nasturzi [2] in fiore, dietro il quale si affacciano un giovanissimo, pestifero ailanto e un altrettanto tenero fico.
Ordino appetitosi dakos. L’amico Kostas mi informa che stasera hanno finalmente cucinato la ghiemistá, e così la prendo. Si tratta di peperoni rossi e verdi ripieni di riso (ghiemizo significa infatti “riempio”), accompagnati dai piccoli dolmadakia della casa immersi in salsa tzatziki. Una leccornia!
La coppia di oggi non si vede, ma al mio fianco ne è seduta una di tedeschi, attempati, mori (o piuttosto, tinti), che, vedendomi giocherellare col komboloi e udendo le battute vernacole che ogni tanto mi rivolge il cameriere, mi scambiano per uno del posto. Rivelo la mia effettiva origine e preciso di essere della città di Umberto Eco (a quanto pare, lo conoscono).
Aggiungo – mostrando la nota fotocopia – di avere scritto un libro su Creta. Informo che uno dei miei autori preferiti è W. G. Sebald; sorprendentemente, non l’hanno mai sentito nominare. Racconto che era nato durante la guerra, e non aveva un buon rapporto con la Germania (“Come tutti quelli nati durante la guerra…” annuisce sorridendo la donna – e credo i due rientrino nel novero), così si era trasferito in Gran Bretagna, dove insegnava letteratura tedesca e scriveva magnifici libri nella propria lingua madre. Cerco notizie sul telefono e gliele mostro; lei si appunta nome e titoli, dicendo che li cercherà. Sospetto che l’avversione dello scrittore sia ricambiata dal sistema culturale della sua patria…
Marco Grassano
Ottava puntata. Segue
Note:
- [1] Cito sempre nella traduzione del Diodati.
- [2] Tropaeolum majus.
Didascalie:
- Il bagno della ninfa
- La volontaria Finn della Sinagoga
- Il minareto senza moschea dai vicoli vicini.
- I due vecchietti imboccano la Sífaka