Sedicesima parte del reportage di Marco Grassano sulla Provenza.
Meno rinomata (rispetto ad Avignone, ndr), ma di una dolcezza più piena, più intima, tale da meritare affetto e rimpianto, ci è parsa Salon de Provence. Quando, a Pasqua, ne avevamo meticolosamente esplorato il centro, ci aveva subito attratti il profilo del campanile di St. Michel, che, visto dal Castello dell’Emperi, si stagliava dorato, marmoreo e appuntito contro una congestione bluastra di nuvole, come in un quadro di Magritte.

L’incanto prezioso di questa cittadina non è dovuto solo al Castello dei grandi eventi (con nostro disappunto, ci siamo persi, per un solo giorno, il concerto di Paolo Conte), al timpano cesellato della chiesa, al museo napoleonico, agli scorci di scale e di archi mutilati nel terremoto, alla casa di Nostradamus, al municipio o alle storiche porte da cui si accede ai rioni interni [NOTA 1]. Il suo fascino discreto – si potrebbe persino dire confidenziale – deriva in buona parte dall’atmosfera amichevole, serena, riposante, festosa che vi si respira ogni giorno.

Appena arrivati per la nuova vacanza, trascorriamo un intero pomeriggio nel bar ristorante Le petit bouchon provençal, di fianco alla cartoleria, edicola e libreria. Siamo seduti fuori, sotto la torretta angolare dell’edificio che ospita la rivendita. Bevendo birra fresca nel calore denso dell’aria immobile, tentiamo inutilmente di compitare, in lingua originale, qualche strofa della Mireio di Mistral.
Discutiamo sull’etimologia del verbo fouler, “pigiare, calpestare”, e sulla sua eventuale parentela col nostro termine dialettale fulà, “copulare”. Consultando un dizionario Larousse adocchiato sugli scaffali del negozio, individuiamo la possibile origine comune nel tardo latino fullare, “battere i tessuti”.
È mattino avanzato, torrido e fulgente. Il sole, riflesso dai lustri marciapiedi in sampietrini color avorio, incipria di lieve chiarore le superfici verticali. Attendiamo l’ora del pranzo in un bar sul lato nord della Fontaine Moussue – enorme, gocciolante fungo di calcare e muschio.

Conversiamo con il cameriere, un sessantenne dai capelli castano-rossicci che ci racconta di essere un “miscuglio di razze”: inglese di nascita, è in parte francese, in parte spagnolo e ha una nonna di Carrara. Ha sempre avuto una passione per la conoscenza. Ha appreso l’arabo e i suoi vari dialetti, unica cultura che non si porta nel patrimonio genetico.
Ora ha imparato, pian piano, a navigare in Internet. Ha trascorso tutta la vita a studiare, ci dice, quando non esistevano ancora i mezzi tecnologici disponibili oggi, soprattutto per le lingue. Ha un figlio e una figlia, entrambi medici, il cui lavoro si svolge in gran parte con l’ausilio del computer. Ha anche un nipotino di cinque anni, che non sa scrivere a mano ma che gli manda messaggi per posta elettronica.
Passeggiando con pigra lentezza sotto i platani del Cours Hugo, impavesati di bandierine tricolori per il mondiale di calcio appena conclusosi, o perlustrando i vicoli in porfido compatto della zona pedonale, siamo stati pervasi tante volte da una subitanea sensazione di rilassato benessere, di gioia cristallina.
I ristoranti di Salon de Provence
In questo capitolo, girovago e ozioso anch’esso, non posso omettere un ricordo più o meno compiaciuto dei vari ristoranti di Salon la cui cucina abbiamo avuto l’opportunità di sperimentare.

Le clos des aromes, lungo la blanda salita per il Castello, è di gran lunga – in tutta la Provenza – il miglior locale dove abbiamo mangiato. L’ambiente è studiatamente rustico. Le pareti in pietra a vista non fanno altro che dar risalto al bianco immacolato del soffitto e dei tavoli, apparecchiati con sobria raffinatezza. I cibi sono sfavillanti nei cromatismi ma sempre equilibratissimi nel dosaggio dei sapori.
Si parte dalla composita assiette provençale, nella quale, a mio avviso, sono ricompresi, tra le erbe aromatiche del condimento, anche i semi di lavanda. Ci si trova poi di fronte a un ventaglio assai ampio di variazioni sul tema per verdure, carne, pesce, riso, pasta, funghi e così via. Nessuno di quei piatti, se mangiato con ragionevolezza, opprime lo stomaco. Dopo una cena del genere, si rimane sospesi parecchio tempo in una sorta di estasi papillare, fatta di pensieroso appagamento e di nostalgia indefinita.
Un posto assai gradevole è pure Le Gavroche, in Rue Moulin d’Isnard, sempre nella cerchia storica. Ricordo di avervi gustato un delizioso piatto di rognoni ai granelli di senape (rognons aux grains de moutarde), accompagnati da un contorno di fettuccine, per poi concludere in bellezza con una crème brulée alla lavanda.
Ricette più pesanti sono quelle del vicino La Boulangerie, forse perché la proprietaria proviene dal Lot-et-Garonne, tra Nérac e Agen. Tuttavia, se si lasciano da parte le combinazioni a base di anatra e l’agliata Soupe de pistou, il locale offre qualche non trascurabile specialità.
Con meno pretese, ma con una qualità comunque lodevole, è il già citato Petit Bouchon Provençal, in Cours Hugo. Il piatto di verdure alle erbe mediterranee che vi ho ordinato una sera splende nella memoria per le tinte vivaci e per l’intensa voluttà gustativa.
La curiosità dell’esotico ci ha condotti, una volta, nel ristorante vietnamita. La cucina del sudest asiatico si è rivelata assai inferiore a quella cinese. Aggiungono, per esempio, pizzichi copiosi di asprigno coriandolo ovunque, nella zuppa saigonese come nel gandao (se non ho capito male il nome), ossia tagliolini di riso con funghi viscidi come alghe. Le porzioni sono abbondanti e i prezzi assai modici. In definitiva, però, non vale la pena di ripetere l’esperienza.
NOTA 1: Un attesissimo e gradito ritorno estivo a Salon è avvenuto nel 2015 e, di nuovo, nel 2016. Ne racconto più avanti.
Sedicesima parte – segue.
Marco Grassano
Foto di Marco ed Ester M. Grassano
Didascalie:
- Il campanile di Salon contro il cielo d’aprile
- Il Municipio di Salon
- La fontaine moussue
- Verso il Castello dell’Emperi