Dodicesima parte del reportage di Marco Grassano sulla Provenza.
Mattino. Stiamo percorrendo la Statale per Aix. Ci lasciamo indietro Cazan. Verso sud, alta sopra le irregolari curve orografiche che emergono verdi dal pianoro, una nuvoletta candida si sfilaccia al vento in bioccoli ritmici, come tenui increspature sulla superficie dell’azzurro.
Qua e là, stesi ad ammantare le ondulazioni del terreno, appezzamenti di girasoli, alcuni rinsecchiti, forse perché seminati prima, altri di un giallo ancora acceso.
Giriamo attorno alla città. Tentiamo, con alterno successo, alcune strade dirette a est. Passiamo oltre l’ampio cimitero. Prima di giungere a Le Tholonet, vediamo spuntare tra gli alberi, lungo una curva, il profilo sbreccato della Sainte-Victoire.

In effetti, come scrive nel suo saggio Yves Bonnefoy, “la montagna è, di primo acchito, la propria massa, questo slancio verso di noi di una profondità destinata a restare chiusa”.
Ora che la vediamo con la stessa angolazione da cui abitualmente la raffigurava Cézanne, comprendiamo che i verdi, teneri o foschi, spennellati nei cieli di molti dei suoi celebri dipinti, non sono una reminiscenza delle lievi nuvolette di Giovanni Bellini, bensì le chiazze interposte delle foglie degli alberi, rese incandescenti dalla luce o velate da una sovrapposizione di ombre. Il sole percuote impietoso la roccia, senza far nascere, lungo le sue pieghe, le decine di strie violette che le conferiscono tridimensionalità al tramonto. Dalla nudezza calcinata della mole granitica, possiamo intuire l’immensa lesione dell’incendio che più di un secolo fa, come racconta ancora il poeta, la privò del suo vellutato velo vegetale.
La sagoma del monte ci accompagna immutabile, quasi ossessiva, mentre saliamo un clivo di rocce grigie e di terra color mattone, tra cespi pungenti e riarsi che crescono via via in un bosco di sempreverdi. Rosmarini selvatici e lentischi emanano, sotto la volta dei rami, un aroma profuso, che mi rammenta, forse perché misto ad altri sentori, l’incenso di chiesa.
Pranzo a Le Tholonet
Raggiungiamo il sommo dell’erta, scavalchiamo un muricciolo di pietre a secco e ci ritroviamo tra alcune casupole da nani, occultate in mezzo agli alberi, ai sentieri e ai macigni. Una di esse è vivacemente infiorata di ciclamini. Tutte sono pulite, ordinate, impeccabili, però chiuse. Forse vengono utilizzate nei fine settimana, o forse per la caccia. La cosa certa è che qui, in quest’aria stagnante e balsamica, con questa quasi indigestione di luce, che diluvia silenziosamente nelle radure, in questo caldo bruciante ma secco del fulgido luglio, si sta bene.
Ci ritroviamo sullo stradello che collega al piccolo rione e lo seguiamo fin fuori dall’intrico vegetale. Sfociamo nuovamente in un paesaggio di scabri sassi cenerini e di friabile terra rossa, sempre più tinta di grigio man mano che avanziamo. Siamo terribilmente assetati, disidratati dalla sudorazione che l’asciuttezza del clima non ci ha fatto percepire.
Decliviamo fino alla provinciale e andiamo a recuperare l’auto ormai rovente. In pochi minuti raggiungiamo il ristorante Relais Cézanne, a Le Tholonet. Mentre ordiniamo il pranzo, beviamo avidi una grande birra alla spina e un’acqua minerale Badoit. Siamo seduti nell’atmosfera torrida del dehors. Di fronte a noi, un gruppo di amici: due uomini, un’orientale circondata di bambini e una ragazza che mi ricorda la ragioniera del mio Comune. Mangiamo lentamente i piatti, gustosi e colorati. Sorseggiamo altra birra, con più lentezza e voluttà, socchiudendo gli occhi al barbaglio inverosimile, formidabile della luce.

Riprendiamo la macchina lasciata in un grande piazzale ombreggiato di platani, per il resto vuoto. A poca distanza, accaldati, due signori e una donna giocano a bocce, mostrando la caparbietà dei turisti che vogliono seguire una propria bislacca concezione delle abitudini locali.
Aix-en-Provence
Arriviamo ad Aix e infiliamo la vettura nel parcheggio sotterraneo di Boulevard Carnot. Ci incamminiamo per la pedonale Rue d’Italie. Fontanelle, disposte un po’ dovunque, tengono fede alla vecchia denominazione civica di Aquae Sextiae. Senza l’acqua corrente, la civiltà romana sarebbe stata inconcepibile. Come quella araba, del resto: si pensi all’Alhambra granadina, o all’Alfama di Lisbona. L’aspetto del centro storico ricorda vagamente la nostra Acqui Terme – Aquae Statiellae secondo il nome antico, da cui pure è apparentata a questa cittadina gallica.
Camminiamo lungo Cours Mirabeau, passando al piede degli enormi platani. Dapprima costeggiamo il lato dei severi palazzi signorili. Oltre il marciapiede, la fila di bancarelle di un mercatino. Torniamo poi indietro dalla parte dei caffè – tutti affollati – e dei negozi. Proseguiamo fra le vie, in una piacevole calura arieggiata che cancella il ricordo del freddo sofferto in aprile, quando una morsa gelida alle tempie mi aveva costretto ad acquistare un beret basque in una cappelleria di Cours Sextius.

In Place d’Albertas, un triangolo d’ombra seca diagonalmente la facciata ottocentesca e gli antistanti sampietrini, azzurrando, al vertice, una fontana asciutta. Proseguiamo fino al Comune, con l’arcuata torre dell’orologio sporgente verso la piazza e il cancello in ferro battuto aperto sullo spazio luminoso del cavedio.
La casa di Cézanne
Oltre la cattedrale, varchiamo la porta da cui si accede a Boulevard Pasteur e risaliamo, per diverse centinaia di metri, Avenue Paul Cézanne. Vorremmo visitare la casa dell’artista. È una villetta fin de siècle, completamente schermata dagli alberi e difesa da un muro di sassi. Mi sembra, più che altro, il rifugio misantropico e abbastanza borghese di un pittore, originale – anzi, geniale – solo nell’elaborazione dei suoi quadri. Non è possibile accedere, perché vi è in corso un ricevimento ufficiale, ma non credo ci perdiamo granché [Nota 1].

Torniamo allora indietro e ci fermiamo a bere qualcosa nel bar di fronte alla cattedrale. Un venticello fresco corre lungo la via (la pavimentazione luccica, per il lavaggio pomeridiano) e ci lambisce con la sua gradevole carezza. Sorseggiamo una birra mentre osserviamo le scanalature concentriche del portale gotico e la superficie chiara della parete perimetrale del chiostro.
Più in là, vicino alle Poste, ci soffermiamo a esaminare il fronte dell’Arcivescovado, diviso in due triangoli identici di sole e d’ombra. Gli esterni dei palazzi, sui quali il cielo diafano riverbera un riflesso di luce calante, appaiono tutti delicatamente soffusi dalla patina dorata che il tempo conferisce a questa varietà di pietra da costruzione.

Ci sediamo di nuovo: alla terrazza dello Stop Bar, in Place des Cardeurs, di fianco al Comune. L’impianto stereo sta diffondendo brani di Paolo Conte. Nella lieve euforia prodotta dalla birra, ci godiamo la densità di queste magnifiche parole in musica. Il cielo azzurro e alto sembra di smalto e corre con noi lungo la strada zitta, che vola via come una farfalla o una nostalgia fino ai laghi bianchi del silenzio. L’aeroplano nell’aria bionda e calda vola piano. Le lucciole girano nei cerchi della notte bardata di stelle. Il tramonto in arancione si gonfia di ricordi che non sai. E, sì, la nostra birra fa gola di più in questo giorno appiccicoso di caucciù. Ecco che però la canzone Bartali viene interrotta di colpo dopo le parole “tra i francesi…”, censurando sciovinisticamente il seguito, “… che si incazzano”. Chi conosce il testo, trova la suscettibilità ridicola.
Ci spostiamo di pochi passi, per cenare, sempre all’aperto, nel ristorante Le Bouchon Provençal. Di nuovo sapori morbidi e corposi. Vivande che si screziano in vivaci armonie cromatiche. I nostri vicini di tavolo prendono a conversare con noi, lodando la qualità del cinema d’autore italiano e di alcuni scrittori, a loro noti. Sono una coppia matura, del Nord, dall’aspetto quasi britannico. Persone colte e raffinate, che mi consigliano la lettura di Paul Valéry, in particolare della Jeune Parque: “Ah, vous verrez, c’est vraiment un très, très joli poème!”.
Al termine della cena, ci avviamo per viuzze piene di gente che mangia seduta ai tavolini di strada. Ogni tanto guizzano, repentini, accecanti bagliori di faretti. Pare quasi di essere a Lisbona. Anche certi scorci di vicolo si direbbero nel Bairro Alto.
È difficile orientarsi senza l’aiuto del sole, ma, girando un po’, riusciamo a ritrovare il parcheggio e poi, con altrettanta fatica, a imboccare la strada del ritorno.

Superiamo Saint Cannat e saliamo verso Lambesc. Mi viene alla memoria l’arcobaleno che proprio qui avevamo fotografato, a Pasqua, tornando dalla precedente visita in un’Aix grigia e glaciale. Il cielo era livido, con in basso una fascia ancor più scura a listare l’orizzonte. Contro di esso si drizzava e si apriva, in una giostra di colori, il getto ardente dell’iride, scaturito dal suolo, come una fiamma, per avvolgere un campanile reso minuscolo dalla distanza. Gli alberi del viale, i campi e le case lontane venivano rischiarati di traverso da una fessura di tramonto che vi gettava spruzzi e spatolate di sfumature ocra.
Nota 1:
Ci sono poi stato, da solo, nel piovoso ottobre del 2003. La matura donna bruna che accompagnava il nostro gruppo di visitatori parlava francese e inglese. Ci ha spiegato che l’ampio finestrone dell’atelier era rivolto a nord, per ottenerne una luce più stabile, e che Cézanne aveva imbiancato personalmente le pareti, cercando una tonalità di colore neutra.
La mobilia, le suppellettili, i libri, mi hanno rammentato subito lo studio di Giuseppe Pellizza da Volpedo, anch’esso tinteggiato dall’utilizzatore in analogo grigio-marroncino. Ho fatto presenti le somiglianze, replicando poi, a una perplessità cronologica espressa dalla guida, che i due artisti erano morti a distanza di pochi mesi.
Quel giorno, passando da una libreria del Cours Mirabeau, mi ero regalato gli Essais di Michel de Montaigne, nell’edizione tascabile Gallimard. Arrivando in città, avevo offerto due euro di elemosina a una ragazzina graziosa – capelli castano chiaro, begli occhi verdi, sorriso mesto e piacevole – che mendicava seduta sul marciapiede di fronte al parcheggio, trattenendo l’impulso di domandarle cosa diavolo ci facesse lì una come lei…
Dodicesima parte – segue.
Marco Grassano
Foto di Marco ed Ester M. Grassano
Didascalie:
- La Sainte Victoire
- Pranzo al Relais Cézanne
- La piazza tagliata dall’ombra
- La casa di Cézanne
- Le facciate dei palazzi
- Arcobaleno e tramonto visti a Pasqua