Sesta puntata del reportage di Laura Baldo sull’Iran.
Il quinto giorno di viaggio ripercorriamo un tratto del percorso fatto ieri, e stavolta noto le coltivazioni lungo la strada: palme da dattero, soprattutto, con le reti messe sotto i grappoli di frutti che maturano per evitare che cadano. Qualcuno discute se le reti siano di plastica, e in quel caso se non si sciolgano. Alla fine si decide che è impossibile siano di plastica, forse filo metallico.
Oltre alle palme ci sono distese di piante verdi di media altezza che Alì ci rivela essere canne da zucchero. Ci sono anche risaie, e fatico a immaginare dove trovino l’acqua con questa siccità. I campi coltivati sono intervallati da distese di terreni incolti punteggiati di erba secca, dove pascolano indisturbate e solitarie pecore dal mantello marrone scuro. Non si vedono pastori, né cani, sembra che vaghino libere per la campagna. A parte la strada non c’è nulla qui intorno.
La ziqqurat di Choga Zanbil
Mentre svoltiamo per una stradina laterale notiamo una grossa pozzanghera, con dentro un gruppo di mucche che si rinfrescano. Sono le 11 di mattina, e a giudicare dall’aria fiacca delle mucche la temperatura dev’essere già torrida. Poco dopo ci fermiamo per la prima visita della giornata: Choga Zanbil. Pare che sia uno dei pochi esempi di ziqqurat fuori dalla Mesopotamia, nonché il meglio conservato al mondo. È di epoca elamita, del XIII secolo a.C. e il primo impatto è spettacolare. La piramide di mattoni color ocra chiaro spicca su una distesa assolata color avorio contro lo sfondo azzurro uniforme soprastante.
Scesi dal pullman il caldo ci investe come se entrassimo in una fornace. Alcuni uomini del nostro gruppo scendono senza cappello, ma correranno ai ripari dopo pochi minuti. Il posto è enorme e davvero splendido, ma mi tocca fare foto al buio: la luce accecante impedisce di vedere lo schermo. Ad alcuni il telefono si è spento. Mi spiegano che è normale con temperature estreme.
Non ci sono alberi o altre fonti d’ombra, quindi le spiegazioni di Alì sono molto brevi. Dopo aver completato il giro all’interno della piramide, ci fermiamo ai bagni, dove c’è una piccola oasi verde e due misteriose capanne di giunchi vuote. È possibile che stiano costruendo una sorta di museo etnografico. Il sito in generale sembra abbandonato, a parte noi non ho visto nessuno, nemmeno un custode.
Il ponte romano
Arriviamo a Shustar a ora di pranzo, attraversiamo il fiume Karun, molto ampio ma con poca acqua, e noto di fianco alla strada, prima che ce li indichi la guida, i resti di un antico ponte romano ad arcate molto pittoresco (il suo nome, da ricerche successive, è Band-e Qaisar, o Diga di Cesare), che pare sia stato costruito da prigionieri Romani ai tempi della sconfitta dell’imperatore Valeriano.
Il ristorante dove ci fermiamo è un’antica residenza restaurata, e il cortile quadrato ha uno dei lati con delle arcate aperte, con una magnifica vista sul fiume e le rovine del ponte antico, oltre che sulla cittadina di Shustar.
Lungo il fiume c’è una macchia d’erba verde e una striscia alberata. Una grande acacia fa bella mostra di sé anche al centro del cortile, contornata di divani rivestiti di tappeti per mangiare. Come al solito, è fuori discussione: nessuno pranza all’aperto in questa stagione.
Il ristorante in sé è molto bello, fatto coi soliti mattoni a vista color ocra, nei quali si aprono arcate semplici o trilobate, con portoni di legno dall’aria antica. Alle pareti e ai rami dell’albero sono appese lanterne di ferro. Noi veniamo fatti accomodare in una piccola sala interna, dove c’è un unico lungo tavolo per noi.
Qui non c’è vista, in compenso c’è l’aria condizionata. In alto sul soffitto ci sono delle aperture, e da una di esse entra un uccellino che si posa sul grande ed elaborato lampadario di ferro. Sulla strada per arrivare qui, l’assistente autista è sceso un momento e scopriamo che è andato a comprare dell’uva per noi. Qui infatti non si usa mangiare frutta ai pasti, quindi non sempre i ristoranti la portano. L’uva è la più buona mai mangiata, coi grani piccoli e dorati, dolcissima e priva di semi.
Alì giorni fa ci ha parlato del fatto che molti fanno il vino di nascosto e ora ci dice che con questa qualità fanno la grappa. Prima del pasto ci portano dei bicchierini con dentro un liquido giallo che dall’aspetto sembra limoncello, ma sa di zafferano e menta. Non è cattivo ma neanche buono, ha di positivo che è fresco.
Qui i piatti tipici sono molti e, dimentica delle porzioni che portano di solito, ordino ben due cose: melanzane e pane condito con sugo di carne agrodolce. Il pane è buono ma è troppo e mi pento di non aver fatto a metà. Le melanzane sono sempre troppe e nemmeno mi piacciono, c’è sopra qualcosa dal sapore forte, che sembra pecorino ma in realtà è kashk, latte acido rappreso, e diverse spezie, tra cui la menta.
I mulini di Shustar
Il percorso verso i mulini di Shustar, altro sito Unesco, è breve ma sufficiente a dare un’occhiata al termometro: segna 47,5° (la temperatura interna, nonostante il condizionatore, si aggira sui 30). Il meteo in realtà dava una massima di 51, ma purtroppo o per fortuna non la vedrò mai.
Per qualche motivo ci troviamo sempre a fare le visite negli orari peggiori. Quando raggiungiamo il posto sono le 15, l’ora del giorno più calda in assoluto, e l’aria sembra tremolare davanti ai nostri occhi. Ci attrezziamo con cappellini, bottiglie d’acqua e creme solari e scendiamo. Finisco in fretta il caffè solubile che sto bevendo; qualcuno lascia il suo, e al ritorno, più di un’ora dopo, lo ritroverà ancora caldo.
La vista del posto è rinfrancante: si entra in un edificio e si esce su una sorta di ampio canyon con un lago azzurro-verde al centro. Dentro, dalle pareti di terra ocra su cui si arrampicano casette fatte dello stesso materiale, si riversano piccole cascate d’acqua limpida. Dalla parte opposta della valle un ripido sentiero scende giù fino a una singola macchia d’erba lussureggiante e alberi.
Qualcuno giù in fondo esce dall’acqua, dove evidentemente quando il sito è chiuso fanno il bagno. La vista e il mormorio dell’acqua rinfrescano il cervello surriscaldato, ma la voglia di tuffarsi è tanto forte che resto qualche minuto ipnotizzata a fissare le increspature trasparenti.
Le stanze con le antiche macine, dove ci viene spiegato il funzionamento dei mulini, sono molto interessanti (il sistema idraulico risale al V sec. a.C., ai tempi di Dario, ed era un capolavoro di ingegneria per l’epoca), ma è il luogo stesso la cosa più sorprendente, una piccola oasi paradisiaca invisibile da fuori, racchiusa tra le ripide pareti di arenaria, dove l’acqua limpida scorre tra chiuse e cascatelle. Sicuramente uno dei luoghi da vedere, anche se prima di partire non l’avevo mai sentito nominare.
Ritorno ad Ahvaz
Nel tornare ad Ahvaz ci fermiamo a prendere un gelato, il primo che assaggio qui. Purtroppo c’è un gusto solo, fiordilatte, ma è fatto col latte di bufala. È buono e, soprattutto, rinfresca.
Stavolta dopo cena io e altre cinque ragazze ci arrischiamo a uscire. La temperatura è ancora sopra i 40° ma ormai ci fa un baffo.
Sono le 22 e molti negozi stanno aprendo ora. Ci sono panettieri che cuociono grandi forme di pane piatte, come quello che mangiamo a tavola. Mi fanno un po’ pena a vederli lavorare vicino ai forni con questo caldo.
Ahvaz non è certo una città turistica, i negozi sono soprattutto per i locali, ma proprio per questo più interessanti. Ci sono negozi di alimentari, di prodotti per la casa, farmacie, abbigliamento. Mi fermo in uno di questi a guardare i vestiti e ne trovo uno, una sorta di miniabito, che costa circa quattro euro. L’esperienza è piacevole: intorno a me ci sono molte donne di qui che provano vestiti, il camerino è occupato ma la commessa sposta lo specchio, in modo da poterlo provare sopra la camicia.
Fuori da una profumeria un uomo di mezza età ci ferma per chiedere da dove veniamo. Saputo che siamo italiane ci parla di un ponte crollato a Genova ieri. La cosa mi colpisce, pensando che guardino le notizie in internet, ma Novella mi spiega che l’hanno detto al tg locale, cosa che mi sorprende quasi altrettanto.
Dal momento che nei negozi si sta più freschi, nel prossimo entro anch’io, stavolta con entusiasmo, visto che è una pasticceria, e anche molto bella. Ci sono dolci di ogni tipo, dalle torte con glassa colorata a una vetrina piena di pasticcini a forma di animale che ricordano un po’ i manga giapponesi, fino ai biscotti freschi.
Frastornata da tutto quel ben di dio non so bene cosa prendere. Poi vedo una vetrina piena di baklava e altri dolci fatti di sfoglia, miele e frutta secca. Preferirei assaggiare qualcosa di locale, ma non mangio un vero baklava da tanto. Scopro poi, da ricerche in rete, che in realtà è un dolce tipico di tutta l’area mediorientale, e che ci sono delle discussioni su chi l’abbia inventato per primo.
Lo mangio fuori, mentre le altre entrano nell’ennesimo negozio; è così caldo che il miele diventa subito liquido e cola fuori, mi tocca mangiarlo in fretta e alla fine ho le dita appiccicose ma un sorriso soddisfatto. Torniamo in hotel coi nostri acquisti intorno alle 23 ma la temperatura aggiornata è ancora di 40°.
Laura Baldo
Sesta puntata – segue.
Di Laura Baldo è appena uscito da Alcheringa Edizioni il romanzo giallo “La salvatrice di libri orfani”.
Didascalie:
- La ziqqurat di Chogha Zanbil
- Interno della Ziqqurat
- Shushtar, cortile del ristorante
- Vista dalle arcate del ristorante (sullo sfondo il fiume e il ponte romano)
- Kashk Bademjan (crema di melanzane con siero di latte acido e menta)
- I mulini di Shushtar
- Pasticceria ad Ahvaz