Quinta puntata del reportage di Laura Baldo sull’Iran.
La mattina dopo ci aspetta la tappa in pullman più lunga del viaggio; sveglia alle 6 e partenza da Kermanshah alle 7. La vista dell’alba oltre la città e le montagne, e del sole che colora di rosa la facciata dell’hotel mi ripaga della levataccia.
Quando ci fermiamo per una pausa, mi guardo attorno e mi sembra di respirare a pieni polmoni dopo non so quanto tempo: il paesaggio intorno è aperto e sconfinato, a parte la strada e un’unica macchina non c’è niente e nessuno intorno a noi, a interrompere la distesa di montagne. Siamo nel bel mezzo del nulla.
Dopo le lunghe ore di pullman, con l’aria condizionata troppo alta, scendere è uno choc. Sono circa le 13, il sole splende impietoso in un cielo come sempre limpido (qualcuno del gruppo dice che il governo iraniano avrebbe accusato gli israeliani di rubare loro le nuvole; dopo giorni senza nuvole in vista quasi ci credo). L’aria è rovente, tanto che i polmoni la immettono con qualche perplessità. Fuori siamo sopra i 40 gradi e anche fare i pochi metri fino al ristorante è faticoso.
La cittadina di Shush — dove sorgeva l’antica Susa — è pittoresca a suo modo, l’architettura delle case è quella moderna e un po’ trascurata che c’è dappertutto, ma le vie e le piazze assolate e semideserte hanno un loro fascino sonnacchioso da paese del sud.
Il ristorante non è niente di che, ma accanto c’è un fiume, e credo sia il primo che vedo qui. Al di là, oltre le palme e le acacie del lungofiume, c’è una costruzione grande e misteriosa che sembra un castello medievale con merli e torri. Ne sveleremo il mistero tra un po’.
Il mausoleo di Daniele
Dopo pranzo risaliamo sul pullman, ma dopo aver attraversato un ponte ci fermiamo perché siamo già arrivati. Avremo fatto sì e no 200 metri; qualcuno dice che potevamo venire a piedi, ma ripensando alla fatica di fare i pochi metri fuori dal ristorante decido che è stato meglio di no.
La meta è la tomba di Daniele, che spicca con la sua strana cupola conica di mattoni. L’interno è la solita profusione di frammenti di specchi.
Indossiamo di nuovo il chador. Stavolta ricordano più delle lenzuola di flanella a fiori riciclate che dei veri chador; probabilmente lo sono davvero. Il caldo (sotto il lenzuolo si fa la sauna) rende l’esperienza meno divertente della volta prima, per non parlare della donna velata di nero che singhiozza e si strappa i capelli vicino alla grata della tomba.
Il posto in sé è strano: a parte la facciata con le solite maioliche azzurre, il cortile è per qualche motivo allagato, file e file di lampadine elettriche sono appese come per una festa campestre, su una parete c’è un poster moderno con disegnato uno zaino e dei pastelli, segno che c’è una scuola elementare all’interno. L’insieme è abbastanza bizzarro da essere interessante, ma ormai ho l’impressione di non respirare e mi gira la testa.
L’antica Susa
Il sito Unesco di Susa è tra i più significativi dell’intera Persia, perché risale all’epoca elamita (4200 a.C.) e fu importante per millenni. Alle tre del pomeriggio, comunque, ha la desolante prospettiva di molto tempo passato sotto il sole cocente; mi armo di cappellino sopra il foulard e di bottiglia d’acqua fresca prima di scendere.
Durante il percorso sveliamo il mistero del castello: è davvero un castello, costruito come residenza nell’Ottocento dai Francesi che sono venuti a fare gli scavi, usando materiali trovati sul sito (!). Breve parentesi triste: oltre a usare reperti millenari per farsi la casa, gli archeologi in Iran hanno saccheggiato buona parte degli oggetti trovati, che oggi sono al Louvre o al British Museum.
Oltrepassiamo il castello per salire alla vasta e assolata spianata dove c’è quel poco che rimane: per lo più fondamenta degli edifici e qualche moncone di colonna o di statua. Alì ci raduna per darci le spiegazioni di turno, all’ombra di una grande acacia, messa qui credo apposta (stare fermi ora sotto il sole significa rischiare un malore).
Di Susa ricorderò soprattutto il contrasto del cielo azzurro sopra la spianata abbagliante del colore della sabbia. In lontananza si intravede la città di Shush, qualche casa e perfino una ruota panoramica, ma è un altro mondo.
Dopo Susa c’è appena il tempo di rinfrescarsi prima della prossima fermata: il sito elamita di Haft Tapeh (o Sette Colline). Sicuramente era solo di strada, perché non c’è quasi niente da vedere qui. Tanto per cominciare di collina ne vedo una sola. C’è una tomba scavata nel calcare, ma dentro non c’è niente.
Si sale una scarpata un po’ ripida, sopra c’è una spianata polverosa e desolata, sullo sfondo lontano i silos metallici di una fabbrica. Delle piante spuntano qua e là tra la polvere e i frammenti di pietra, alcuni dei quali sono probabilmente del pavimento originale. Stiamo camminando su cocci millenari mischiati ai sassi. Qualcuno riconosce le piante come capperi selvatici, e sono forse la cosa più degna di nota qui.
Nel forno di Ahvaz
Sul pullman il termostato segna 40,9° e gli faccio una foto, senza immaginare che siamo ancora ben lontani dalle temperature massime.
Mezz’ora dopo raggiungiamo Ahvaz. Siamo già stati avvertiti che sarà la città più calda, ma credo nessuno si aspettasse così calda. Dal momento che non è nemmeno la più meridionale, il motivo per queste temperature assurde dev’essere dovuto a qualcos’altro che ignoriamo. Forse alla quantità di fiamme che bruciano dai pozzi di gas e petrolio lungo la strada.
All’ingresso della città c’è un’aiuola con una fila di dromedari. Non sono siepi potate, ma sagome ricoperte da drappi lanosi verde scuro. La consistenza sembra quella della spugna che si usa nelle composizioni e mi viene il dubbio che, in stagioni più idonee e felici, vengano bagnati e ricoperti di fiori.
Questa zona è a maggioranza di etnia araba, quindi sono più conservatori della media. Ci viene raccomandato di sistemarci il velo prima di scendere dal bus, proprio quando avevo abbandonato la paranoia.
Fuori, il caldo si unisce all’odore di gas che aleggia sulla città — come se qualcuno avesse lasciato aperto un enorme rubinetto — per renderla ancora più inospitale al genere umano.
L’hotel Oxin è bruttino da fuori e l’interno non ne migliora l’impressione. L’unica cosa che non posso non notare è un caminetto di pietra nell’angolo del salone, che fa a pugni con la temperatura. Alì ci spiega che l’inverno qui può fare freddo, con temperature anche sotto zero. Tra estate e inverno c’è un’escursione termica simile a quella del deserto. Qualcuno chiede come fanno quelli che ci vivono, e lui risponde che d’estate lavorano solo tre giorni alla settimana, per lo più di notte.
Purtroppo è l’unico hotel dove è proibito esplicitamente fumare; la finestra ha un doppio vetro, quando apro il secondo entra un soffio tipo phon rovente misto a gas, e chiudo subito. L’aria condizionata fatica a ingranare e, ogni volta che si toglie la scheda magnetica, si spegne. Visto che molti si lamentano, il giorno seguente gli addetti alle pulizie lasceranno le schede nelle stanze, in modo da tenerla accesa.
Per fumare scendo in un cortiletto interno deserto, dove c’è un assurdo gazebo con ranocchie e conigli di ceramica ai lati. Sarebbe l’ideale per star fuori a fumare, se non fosse che non si resiste più di pochi minuti; il fumo inalato è più fresco dell’aria esterna, il sapore si sente appena.
La serata è la peggiore di tutto il viaggio: è troppo caldo per uscire — siamo ancora sopra i 40 gradi — e intorno sembra non ci sia granché, quindi dopo cena restiamo un po’ sui divani della hall, sotto il soffio gelido dell’aria condizionata, e poi andiamo a dormire.
Laura Baldo
Quinta puntata – segue.
Di Laura Baldo è appena uscito da Alcheringa Edizioni il romanzo giallo “La salvatrice di libri orfani”.
Didascalie:
- Shush
- Il Mausoleo di Daniele
- Interno del Mausoleo
- Area archeologica di Susa, il “castello”
- Le antiche fondamenta
- Ahvaz, raffineria