Ottava puntata del reportage di Laura Baldo sull’Iran.
Le ore calde del dopopranzo sono anche più tranquille, il sole meno forte e si è alzata una leggera brezza. Ma è soprattutto il posto a risollevarmi: il giardino Eram (Bagh-e Eram, o Giardino del paradiso), uno dei molti giardini per cui la città è famosa, protetto dall’Unesco.
Assomiglia un po’ al Narenjestan, per lo stile del palazzo al suo interno e la vasca d’acqua azzurra davanti. Qui però i corsi d’acqua continuano, diramandosi un po’ in tutto il giardino. C’è una profusione di sentierini e prati verdi, ombreggiati da cipressi, platani, salici, aranci e alberi di lime, coi frutti maturi. Intorno alla vasca principale ci sono palme e cespugli di rose, che ora purtroppo sono in gran parte appassite. Per l’ennesima volta, qualcuno ci dice che dovevamo vederle in primavera. C’è molta gente, ma il posto è tanto grande che quasi non ci si accorge.
È impossibile vedere tutto, così decido di concentrarmi sullo stagno delle tartarughe, di cui ho carpito vagamente la direzione. Lungo la strada c’è un prato pieno di siepi potate a forma di fenicottero, che stavolta sono veri cespugli. Mi fa pensare inevitabilmente alla partita di croquet di Alice e mi chiedo se l’idea venga da lì.
Più avanti troviamo infine lo stagno, l’acqua è di un verde limaccioso, ma le rocce e le piante disposte ad arte intorno gli danno un’aria selvaggia molto piacevole. Di tartarughe ne intravedo solo una, sono tutte all’ombra tra le rocce per proteggersi dal sole, mi fanno un po’ pena a essere sincera.
Proseguo da sola e scopro uno dopo l’altro dei deliziosi angoli nascosti dove il ruscello forma polle riparate tra le rocce e gli alberi che lo fiancheggiano, ed è attraversato da piccoli e graziosi ponticelli di legno. L’edera si arrampica su per i tronchi e striscia a formare morbidi tappeti per terra. Il sole filtra tra le foglie o si fa largo creando polle di luce smeraldina sul verde dell’acqua o dell’erba, che si alternano a fresche zone d’ombra.
L’acqua, l’ombra degli alberi e la brezza profumata fanno sì che la temperatura sia gradevole. La pace e il silenzio regnano sovrani, anche le voci giungono smorzate. Gli unici suoni sono i sassolini smossi sotto i miei piedi, il mormorio ipnotico dell’acqua, il fruscio del vento, gli uccellini che cantano tra i rami. Penso che il nome che gli hanno dato è senz’altro appropriato: è davvero un angolo di paradiso.
La tomba del poeta Hafez
La prossima tappa è altrettanto bella e anche interessante: andiamo alla tomba del poeta Hafez. Essendo molto famoso anche all’estero, ne avevo già sentito parlare, ripromettendomi prima o poi di leggere il suo Diwan, o Canzoniere. È uno dei maggiori poeti persiani, uno di quelli che studiano a scuola, paragonabile per noi a Dante o Petrarca.
Vissuto nel XIII sec., quando Shiraz era una ricca e fiorente città dell’impero, al centro dei traffici commerciali tra oriente e occidente, Hafez ha scritto poesie che parlano della città e della sua corte. I suoi versi sono spesso criptici, tanto che molti ritengono che quando parla d’amore o del vino si riferisca in realtà all’ebbrezza mistica e all’unione con Dio. Il dubbio comunque è legittimo, quindi per me rimane sinonimo della Persia classica: le rose, gli usignoli, la poesia, l’amore, il vino. In altre parole la celebrazione della bellezza in tutte le sue forme.
Qui vengono ancora oggi molti de suoi ammiratori e coppie di innamorati, come in pellegrinaggio. La sua tomba è piuttosto recente, ma è molto bella e scenografica. All’ingresso c’è un lungo viale con aiuole e fontane, poi un edificio porticato e, nella parte interna, un gazebo sostenuto da sette colonne bianche. La parte interna della cupola è decorata in modo meraviglioso, tanto che è diventata una delle foto più utilizzate a rappresentare Shiraz.
Sotto c’è il sarcofago, di liscio alabastro bianco, arricchito da versi delle sue poesie in farsi. Nell’aria risuona una canzone e Alì ci spiega che sono le sue poesie che vengono cantate. Io la trovo bellissima, perché contribuisce all’atmosfera sospesa del posto. Il gazebo di per sé è già bello, affiancato da slanciati cipressi e come sfondo il cielo azzurro e le colline brulle color sabbia.
Dopo la tomba visito il negozio di souvenir. Hanno il libro delle poesie in lingua originale con traduzione italiana, con la copertina in pelle a lettere dorate e splendide illustrazioni all’interno. Le poesie di Hafez sono usate come oracolo, come si fa con altri libri tipo l’I-ching: si apre una pagina a caso e si legge il messaggio che ci vuole comunicare.
Solo poi leggendo con più calma mi rendo conto che la traduzione è davvero terribile, che molte frasi non hanno senso e alcune parole sono in tedesco! Fuori dalla tomba ci viene incontro un vecchietto con due canarini sulla spalla e un mazzo di carte: gli uccellini scelgono per noi una carta con dei versi come oracolo. Alì però sembra avere fretta e nessuno degli altri è davvero interessato, così ce ne andiamo senza previsioni.
La prossima tappa è di nuovo la tomba di un poeta: Sa’di. È quasi altrettanto importante ma di lui non so niente, quindi sono meno emozionata. Anche il posto è quasi altrettanto bello, ma somiglia molto a quello appena visto, compreso il giardino, una sorta di gazebo e la lapide con i versi.
Al di là della strada c’è una gelateria, dove si fa il gelato tradizionale di Shiraz. Anche qui niente scelta, solo fiordilatte. Chi vuole può prendere succo di carota invece del gelato. L’alternativa mi pare che non c’entri niente con la gelateria, e comunque qui mi sembrano fissati con le carote, visto che ci fanno anche la marmellata (terribile a mio parere).
La facciata della gelateria è quantomeno bizzarra, in giallo e rosso, con una grande tabella al neon, davanti sono appesi fili di lampadine nude, ma sui muri ai lati sono dipinte rose e usignoli in colori pastello. Quando faccio per assaggiare il gelato ho uno choc: è denso, quasi non si riesce a dividerlo. In più non sa di niente, l’unico lato positivo è che è dolce, e freddo. Scopriremo poi che il gelato tradizionale è fatto come si usava un tempo anche da noi, quando non c’erano addensanti chimici, cioè con la farina di carrube. Il problema è che qui hanno esagerato, è praticamente solido.
Il bazar
La sera è prevista una cena fuori, con tappa al bazar. Arriviamo alla zona pedonale, in una piazzetta molto carina, accanto alla moschea Vakil, dove c’è l’ingresso principale del bazar.
Alì ci guida per un paio di gallerie affollate fino al cortile di un vecchio caravanserraglio. Intorno ci sono due piani di edifici e tra l’uno e l’altro sono tese delle corde con delle bandierine colorate, come per una sagra. Al centro c’è una vasca d’acqua, degli alberi e delle panchine. È un posto molto bello, affollato ma aperto e arioso. Siamo lasciati liberi, stabilendo di trovarci qui tra mezz’ora.
L’interno del bazar, sotto le antiche arcate coperte, è senz’altro ricco di fascino. I negozi con le loro bancarelle sono moltissimi, nell’aria c’è profumo di spezie, soprattutto cannella e chiodi di garofano. Io riesco a fare un paio di foto al volo alle spezie e alle stoffe dei nomadi Qashqai, coloratissime e luccicanti, ma non compro niente.
Il bazar è affollato e le sue diramazioni sembrano tutte uguali. In più, essendo chiuso, fa un caldo terribile. Tra la folla, le luci e gli odori forti, i colori accesi delle merci, il rumore che riecheggia tra le volte e il caldo mi sento subito frastornata.
Sono tra i primi a tornare e tiro un profondo respiro appena fuori all’aria aperta. Nel cortile si sono accese le luci, e c’è un attore di strada che recita qualcosa. Alì spiega che si tratta del poema epico di Ferdowsi, altro antico poeta persiano, la cui opera principale, lo Shahnameh (o Libro dei re) è un testo basilare per la tradizione locale, un po’ come Omero per noi, perché raccoglie molti dei miti e delle gesta degli eroi antichi.
L’attore è anziano, è vestito tutto di bianco, ha una barba grigia e un berretto nero, la sua voce è stentorea e attira pian piano l’attenzione di gran parte della gente, che si assiepa ad ascoltarlo. Mette un’enfasi e un’energia nel recitare che mi trovo a fissarlo anch’io affascinata, dispiaciuta di non capire ciò che dice.
Quando ci siamo tutti lasciamo il bazar, ma ci allontaniamo di poco perché il ristorante è appena fuori. L’insegna dice “Sharzeh Traditional Restaurant”, l’interno è carino, non eccessivo e con le luci basse. Durante la cena riesco a parlare con Alì dei Romeo e Giulietta persiani, di cui un custode ci aveva accennato giorni fa. Scopro così che le storie di amori infelici sono ben due: quella di Shirin e Farhad e quella di Layla e Majnun il folle. Entrambe sono molto interessanti, ma il discorso ben presto si sposta e mi toccherà approfondirle per conto mio.
Dopo cena prendiamo un caffè in uno dei molti locali all’aperto della piazzetta. Fuori dal locale ci sono due ventilatori che nebulizzano acqua, e che qualche ora prima avrei apprezzato di più. Ora la temperatura è gradevole, senza il sole cocente e con la brezza serale. La piazzetta, con la fontana al centro e la moschea di fronte, sono illuminate da una luce azzurrina, nel cielo campeggia una nitida luna crescente, tanto perfetta nella scena che sembra dipinta.
Laura Baldo
Ottava puntata – segue.
Di Laura Baldo è appena uscito da Alcheringa Edizioni il romanzo giallo “La salvatrice di libri orfani”.
Didascalie:
- Palazzo all’interno del giardino Eram
- Giardino Eram
- Tomba di Hafez
- Tomba di Hafez, la cupola
- La piazza su cui si affacciano la moschea Vakil e l’ingresso del bazar
- Le coloratissime spezie al bazar