Settima puntata del reportage di Laura Baldo sull’Iran.
Il sesto giorno di viaggio lasciamo finalmente Ahvaz e le sue temperature disumane per dirigerci a Shiraz, la città dei giardini e dei poeti. Il tragitto è lungo, viaggiamo tutta la mattina, il paesaggio montuoso è aspro e affascinante.
In giro c’è poca gente perché il venerdì per i musulmani è festa. Facciamo sosta per il pranzo in un autogrill tanto squallido quanto bizzarro: le sedie sono tutte ricoperte di cellophane, e sul soffitto è appeso quello che sembra un pannello elettrico contro le zanzare, ma molto più grande. Qualcuno suggerisce che sia per i pipistrelli e con mio orrore Alì conferma.
Visto che siamo vicini al Golfo Persico, sul menu c’è pesce e la cosa mi rallegra, sono stufa di grigliate di carne. Il pesce però è trota. Lo prendo, anche se qualcuno mi fa notare che è improbabile ci siano molte trote da queste parti, con la scarsità d’acqua.
La cosa più plausibile è che non sia affatto trota ma pesce di mare, forse Alì non conosce la parola. Me ne convinco quando arriva un piatto enorme, e il pesce ne avanza fuori con la coda e la testa. Mi devo far aiutare, dandone dei pezzi in giro, ma qualunque cosa sia è buono. Ad accompagnarlo ci sono delle ottime patatine fritte e una salsa di melograno squisita.
Assaggio anche il doogh, bibita che qui è molto popolare, a base di yogurt e sale. Si trova in lattina e va bevuto freddo. A qualcuno degli altri piace, ma a me proprio no.
Le rovine di Bishapur
Dopo pranzo, come sempre nell’ora peggiore, arriviamo al complesso di Bishapur, di epoca sasanide (III-IV sec. d.C.). Le rovine di pietra grigio chiaro sono insolite e affascinanti, anche se non c’è moltissimo a parte le mura. È interessante il tempio di Anahita, dea dell’acqua, dove ci viene mostrato un canale scavato nella pietra che nei giorni prestabiliti allagava lo spazio sacro.
C’erano anche dei bellissimi mosaici di influenza romana, ma a parte uno che era al Museo nazionale, gli altri hanno preso il volo verso il Louvre. Il caldo è ancora terribile, ma si sta meglio di ieri, e mi convinco che ormai mi sto abituando alle temperature (in realtà qui sono più basse, forse sui 40°).
Fuori dal sito il paesaggio è molto bello, davanti a noi c’è un fiume che esce da una profonda gola sul fianco della montagna di fronte. Sul greto del fiume ci sono persone, alcune fanno il bagno (vestite). Saliamo in pullman solo per attraversare la strada. La prossima tappa è proprio nella gola di fronte, chiamata Tang-e Chogan. All’ingresso il custode sorridente ci chiede ancora una volta da dove veniamo e ci augura una buona visita.
La stradina per arrivare al sito costeggia un torrente che si riversa nel fiume. Le sue rive sono ombreggiate da salici, ma tra le fronde si intravedono altre persone, accampate a fare picnic.
Numerosi bambini sguazzano nelle polle dove l’acqua è più profonda, alcuni si sono attrezzati con giochi gonfiabili e gommoni. Dove il sole la colpisce l’acqua è di un azzurro straordinario, intenso e trasparente come acquamarina. Ricordo che è giorno festivo e immagino che questo sia l’unico posto per gli abitanti dei dintorni per rilassarsi e prendere il fresco. Dalla gola infatti soffia una brezza tiepida e piacevole, che accompagna il mormorio dell’acqua.
I bassorilievi di Tang-e Chogan
Distolgo con un sospiro lo sguardo dal torrente per portarlo sui bassorilievi rupestri che Alì ci sta mostrando e che sono senz’altro interessanti, il problema è che tutti questi re achemenidi e sasanidi cominciano a confondersi nella mia mente. Le incisioni celebrano le vittorie sui Romani di Shapur I (il re che ha dato il nome al posto).
Il più interessante e ben conservato è quello del re a cavallo che riceve il cerchio solare raggiato, simbolo dell’investitura divina, da un altro personaggio a cavallo, il dio Ahura Mazda. Anche qui comunque a colpirmi di più è il luogo in sé: il torrente, i salici, la brezza, le montagne brulle e silenziose sopra di noi.
Ripartiamo e ci addentriamo di nuovo nei Monti Zagros. Il paesaggio è suggestivo e la luce è quella morbida del tardo pomeriggio, che ammanta le montagne d’oro pallido e ne sfuma dolcemente i contorni. A tratti, dopo una stretta curva la vista si apre e spazia oltre due, tre creste montuose, sempre più irreali a mano a mano che si allontanano. Ai loro piedi, molto più in basso, vallate avvolte da una lieve foschia luminosa.
Poi la strada inizia a scendere e dopo un’altra ora raggiungiamo finalmente Shiraz. Nonostante sia la romantica città dei giardini e dei poeti, di primo acchito noto soprattutto il traffico, che dopo la pace delle montagne è uno choc.
È quasi ora di cena, c’è giusto il tempo di sistemarsi e cambiarsi. L’hotel Karim Kahn è vistoso e un po’ eccessivo nelle decorazioni, ma comodo. A cena c’è un buffet molto vario, anche se più o meno comprende le solite cose: riso, carne, verdure. Ci sono però molti dolci, tra cui dei datteri ripieni di frutta secca sminuzzata e ricoperti di miele, tanto calorici quanto buoni.
Dopo cena partiamo da soli per un giro in città. Le strade sono ancora più caotiche e rumorose, i marciapiedi sono pieni di gente e venditori ambulanti, passano biciclette e perfino moto. Nel centro storico finalmente c’è una zona pedonale, che costeggia i lati della cittadella di Karim Khan, costruita nel Settecento. Ricorda molto un castello medievale, con le sue torri merlate rotonde, una delle quali pende un po’, come la torre di Pisa.
La visita di Shiraz
Il mattino seguente è dedicato alla visita di Shiraz. Partiamo dal complesso del Narenjestan. Il palazzo, le fontane azzurre coi loro spruzzi d’acqua e le palme dai fusti alti e slanciati sono molto scenografici, noto però che i fiori gialli nelle aiuole sono un po’ patiti.
Un giardiniere sta lavorando poco lontano, tirando via quelli secchi. Non per la prima volta, ci sentiamo dire che i giardini, come il resto del Paese, danno il meglio di sé in primavera. Mi chiedo perché mai organizzino i tour a ferragosto.
Il palazzo, detto anche Casa Qavam, fu costruito a fine Ottocento da una famiglia di ricchi mercanti, ed è un tipico esempio di architettura dell’epoca. L’ingresso, col patio ornato di colonne e il soffitto a specchi decorati è davvero molto bello, e così le sale interne, coi vetri a riquadri variopinti che scompongono la luce e i magnifici soffitti di legno dipinto, uno diverso dall’altro e ispirati all’epoca vittoriana inglese.
Sotto il palazzo c’è un piccolo museo con reperti archeologici e strumenti musicali antichi. Si vendono anche souvenir, tra cui delle graziose scatoline dipinte fatte in osso di cammello, o almeno così proclama la scritta.
La moschea Nasir ol Molk
La prossima tappa è la moschea Nasir ol Molk, detta più comunemente “moschea rosa”, per via del colore delle sue piastrelle decorative, che comprende appunto il rosa, ma che varia molto con la luce. La facciata è splendida, anche se la vasca al centro del cortile, dove una volta si facevano le abluzioni, ha un colore verde sporco ben poco invitante.
Ma la cosa più bella è l’interno, con le volte decorate che si incrociano, le basse colonne che sembrano attorcigliate su se stesse, le vetrate colorate a disegnare dei fiori geometrici, da cui la luce filtra a colorare un tratto di pavimento coperto dai tappeti rossi.
Il momento migliore per visitarla è al mattino presto, coi raggi del sole obliqui che spingono i riflessi caleidoscopici di luce per tutta la sala. Ora saranno le 11 passate, quindi i colori si vedono poco. Rimaniamo per un po’, sedendoci sui comodi tappeti, e facciamo qualche scatto accanto alle vetrate.
La moschea Atigh
Usciti da lì, via di corsa verso la moschea Atigh, la più vecchia di Shiraz, del IX sec. Accanto c’è un parcheggio desolato pieno di macchine, solo bianche e tutte simili per modello (chissà perché il bianco è il colore dominante tra le auto iraniane, con pochissime eccezioni). Intorno al parcheggio sembra che sia scoppiata una bomba: le case sono tutte diroccate e abbandonate, probabilmente dalla guerra con l’Iraq.
La moschea è molto interessante, anche se cominciano a sembrarmi tutte uguali: le piastrelle, gli archi, i minareti, i cortili. Dopo è il turno di una madrasa, cioè una scuola coranica. Non c’è molto da vedere, tranne un cortile con una vasca d’acqua al centro e qualche vecchio in turbante bianco a oziare in giro.
Dopo viene un’altra moschea ancora, il santuario di Shah-e Cherag, il cui nome suggestivo di “Re della luce” mi incuriosiva molto. La folla però è tanta, fa caldo e sotto il chador manca l’aria. Nel santuario interno i non musulmani non possono accedere, si può solo sbirciare da fuori. Colgo una visione di specchi dalla strana sfumatura verde che mi sconcerta: dato il nome mi aspettavo una profusione di bianco o oro.
Per una volta la sosta per il pranzo è ben accetta, perché al pomeriggio ci aspettano altre visite, ancora più interessanti.
Laura Baldo
Settima puntata – segue.
Di Laura Baldo è appena uscito da Alcheringa Edizioni il romanzo giallo “La salvatrice di libri orfani”.
Didascalie:
- Le rovine di Bishapur
- Il tempio dell’acqua
- Bassorilievi di Tang-e Chogan
- La cittadella di Karim Khan
- Giardino e palazzo del Nerenjestan
- Narenjestan, piastrelle decorative sulla facciata esterna del palazzo
- La moschea Nasir ol Molk, esterno
- Nasir ol Molk, le splendide vetrate