“L’ALIBI della domenica” è dedicato a Genova.
A mo’ di prologo
Due settimane fa ho trascorso un brevissimo soggiorno a Genova: un giorno e mezzo. Prima di accedere alla banchina della metropolitana di Milano – con la quale sarei andato in Stazione Centrale – ho visto una signora dall’apparente età di circa sessant’anni trasportare con fatica tre grosse borse. Le portava avanti un po’ per volta, non riuscendo – per l’ingombro e per il peso – a caricarsele tutte insieme. Mi ero organizzato in modo da poter fare colazione con tutta tranquillità prima di prendere il treno. Avevo mezz’ora di tempo. L’ho usata per aiutare la signora a portare in superficie le tre grandi (e pesantissime) borse.

Doveva raggiungere un indirizzo a qualche centinaio di metri dalla stazione della metropolitana, un parcheggio dove avrebbe trovato un furgone che nel pomeriggio sarebbe partito per la Moldavia. La signora mandava tre borse di cibo ai suoi figli rimasti in patria (“Là manca tutto”).
Il furgone però ancora non c’era. La temperatura era vicina allo zero e soffiava un vento gelido. Nel tragitto da Lecco dove vive e lavora l’aveva aiutata soltanto un ragazzo di colore e ora il sottoscritto. “Gli Italiani hanno paura, soprattutto adesso con la pandemia”, mi ha spiegato. Continuava a ringraziarmi per l’aiuto prestatole e prometteva che avrebbe pregato per me.
Ha provato a telefonare all’autista che però non rispondeva. “Si vede che dorme ancora”. Ho tentato anch’io, ma senza risultato. Scaduto il tempo a mia disposizione l’ho salutata, cercando di convincerla a chiamare qualcuno che l’assistesse se nel giro di mezz’ora non si fosse fatto vivo l’autista. Non poteva rimanere cinque o sei ore al gelo!
Di pomeriggio, a Genova, ho telefonato al numero che avevo chiamato di mattina. La prima volta mi ha risposto un giovane che non parlava italiano. La seconda volta un uomo dalla voce più matura mi ha assicurato che la signora era riuscita a consegnare il suo bagaglio. “Tutto ok”. Spero tanto che sia vero.
Durante il viaggio in treno ho ascoltato l’audiolibro de “La morte a Venezia” di Thomas Mann letto da Massimo Popolizio.
Villa del Principe
Uno spettacolo, moltiplicato dall’effetto sorpresa. Scioccamente, infatti, non ero mai stato prima al Palazzo del Principe Andrea Doria, noto anche come Palazzo del Principe a Fassolo, iniziato nella prima metà del Cinquecento e terminato quasi un secolo dopo. I due immensi arazzi con le storie di Alessandro Magno meritano da soli il biglietto. Furono realizzati poco dopo la metà del Quattrocento nel ducato di Borgogna, a Tournai, durante il regno di Filippo il Buono.
Li ho ammirati con calma, cercando di individuarne i dettagli più originali e interessanti. Mi hanno colpito in modo particolare alcuni effetti, come la trasparenza dei veli muliebri e gli schizzi di sangue che, qua e la, macchiano le scene molto concitate: entrambi i manufatti sono esempi perfetti di horror vacui, tanto sono gremiti di figure. Molto interessanti anche gli “Arazzi della Battaglia di Lepanto”.

Paolacci & Ronco
Uscito dalla Villa del Principe, ho avuto una piacevolissima (almeno per me, s’intende) chiacchierata con la coppia di scrittori Paola Ronco e Antonio Paolacci, prima al tavolino di un bar in via Cairoli, poi passeggiando per le vie del centro storico. Inevitabile avvio la pandemia e le sue conseguenze, ma poi abbiamo parlato soprattutto di libri e di Genova.
A breve uscirà la terza indagine del vicequestore (aggiunto) Nigra, dopo l’esordio di “Nuvole barocche” (2019) e la conferma de “Il punto di vista di Dio” (2020), tutti pubblicati da Piemme. Stesso editore che ha mandato in libreria “Indaga, detective”, di cui i due amici mi hanno regalato una copia. In questa raccolta Paola e Antonio sono in ottima compagnia: da Luca Crovi a Valerio Varesi, per rispettare l’ordine alfabetico.
Il racconto della coppia s’intitola “Umbre de muri” ed è ovviamente ambientato a Genova. E per restare nella città della Lanterna, perdonatemi una piccola vanteria: adesso so dove abita l’affascinante Nigra. Mi hanno mostrato il palazzo gli stessi autori. Il vicequestore (aggiunto) ha la fortuna di avere sotto casa una delle migliori caffetterie della città. Altro che il liquido marrone che esce dalle macchinette della questura!
Edmondo Romano alla torre
Dopo una breve pausa in hotel, sono andato a Palazzo Ducale per assistere alla performance del musicista – polifiatista e compositore – Edmondo Romano “La memoria del suono” alla Torre Grimaldina. Faceva parte del programma della rassegna Segrete – Tracce di Memoria (quest’anno alla XIV edizione), organizzata da Virginia Monteverde che ha trasmesso l’evento in streaming sulla pagina Facebook del festival.
Davvero originale la performance. Edmondo – che avevo conosciuto qualche anno fa in occasione di una doppia intervista – ha scelto per ciascuno di noi spettatori uno strumento a fiato con il quale si è messo a “dialogare” con la nostra anima. Io ho deciso di rimanere seduto, aggrappato alla mia penna come un martire al suo strumento di supplizio (ma anche di identità e dunque di riconoscimento). Soltanto il bambino ha fatto come me. Questa coincidenza mi ha fatto pensare. Mi sono dato due possibili spiegazioni, peraltro non conflittuali: ho un lato infantile ancora molto forte oppure, come il bambino, ho obbedito alla mia natura senza farmi condizionare dalla situazione contingente.
Più tardi Edoardo avrebbe suonato dal vivo nella rappresentazione delle “Baccanti” di Euripide per la regia di Laura Sicignano al Teatro Nazionale. Io avevo in programma di vedere lo spettacolo nella tappa milanese al Teatro Elfo Puccini. Purtroppo però queste date sono saltate causa Covid. Speriamo che le recite vengano riprogrammate più avanti.
Arte in prigione
Terminata la performance di Edmondo Romano, Virginia Monteverde ha tenuto per noi spettatori una visita guidata alla mostra di arte contemporanea “Artisti alleati in memoria della Shoah”, allestita nelle prigioni della stessa Torre Grimaldina. Erano esposti lavori di Miro Craemer, Roberto Ghezzi, Manuel Felisi, Luisa Mazza, Stefanie Oberneder, Andrea Sanvittore, Francesco Vullo.
Con il casco antinfortunistico sulla testa per evitare di sbatterla contro gli architravi particolarmente bassi delle celle, abbiamo ascoltato le presentazioni delle singole opere. Io guardavo con curiosità e interesse anche le scritte lasciate sulle pareti dai prigionieri, ripensando a un libro di Giuseppe Pitrè e Leonardo Sciascia intitolato “Urla senza suono. Graffiti e disegni dei prigionieri dell’Inquisizione”, pubblicato da Sellerio nella collana La memoria.
Ma la cosa che più mi ha colpito – insieme allo spettacolare panorama di Genova illuminata in una sera d’inverno – è stata la passione con cui Virginia parlava del suo festival, portato avanti di anno in anno tra mille difficoltà. A lei i miei più sinceri complimenti.
Vite d’artista
Ero alla ricerca di un ristorante per la cena e invece mi sono imbattuto in un teatro che non conoscevo, il TiQu, Teatro Internazionale di Quartiere, in via San Luca. Il caso – che non esiste – ha voluto che giusto quella sera ci fosse in cartellone uno spettacolo, iniziato da pochi minuti. Mi sono subito seduto in ultima fila, senza disturbare il pubblico già presente in sala (odio i ritardatari!).
“Vite d’artista / Chi è là?” raccontava le parabole di due uomini di teatro distanti tra loro nel tempo e nello spazio, ma accomunati da un destino tragico: Christopher Marlowe, drammaturgo contemporaneo di Shakespeare, e Vsevolod Mejerchol’d, regista e teorico del teatro russo (sovietico).
A rievocarle un “collage” di testi e testimonianze realizzato da Andrea Porcheddu, sul palcoscenico con Francesca Santamaria Amato, Rita Castaldo e Mirko Iurlaro. Molto istruttivo, soprattutto la parte su Mejerchol’d, a me completamente ignoto.
Brutti tempi, per un artista, quelli di Stalin (adesso sto leggendo “Il rumore del tempo” di Julian Barnes sul compositore Dmitrij Sostakovic). Soprusi e tradimenti, violenza e tragedia, certo, ma a sentire il nome di alcuni protagonisti, come quello dell’attrice Vera Kommisarževskaja, non riuscivo a non pensare alla cantante lirica Irina Skassalkazaja interpretata da Marcello Cesena dei Broncoviz (con Maurizio Crozza, sua moglie Carla Signoris, Ugo Dighero e Mauro Pirovano). Chiedo venia a Porcheddu.
Settepolpette
Non sapendo se Porcheddu scherzasse o meno quando ha invitato il pubblico a rimanere in sala per bere un bicchiere con gli attori, sono uscito dal teatro per andare a cena. Ho scelto Settepolpette in Piazza Della Raibetta. E cosa potevo ordinare, se non l’omonimo “Misto Settepolpette”? È così declinato:
- polpetta di Fassona al sugo di pomodoro
- polpetta di Ribbe con salsa Barbecue
- polpetta di Polloarrostoepatatealforno (testuale)
- polpetta di acciughe in Bagnùn
- polpetta di polpettone alla genovese
- polpetta di Sarda Caprese
- polpetta di insalata russa
A “bagnarle” un calice di vino rosso e per finire in gloria un eccellente tortino di cioccolato “Sotto il vulcano”. Curiosando su quanto è appeso alle pareti, ho letto la bella citazione su Genova da “Il gabbiano” di Čechov e mi sono imbattuto nel nome della cantante Ethel Merman. Se volete cantare come lei, dovete semplicemente premere un pulsante su un quadro. La prossima volta ci proverò.
La Biblioteca che vorrei
Sabato mattina ho visitato alla Biblioteca De Amicis al Porto Antico l’esposizione “Dal verde all’azzurro. La biblioteca immaginaria in mostra” (c’è tempo fino al 31 maggio). Avevo la curiosità di vedere come i più piccoli immaginano un luogo che può essere misterioso e respingente come la biblioteca pubblica.
Quelli esposti sono i lavori delle classi della scuola d’infanzia e primaria che hanno partecipato al concorso organizzato dalla Biblioteca (la “DeA” per gli utenti) per celebrare i suoi primi cinquant’anni.
Tantissimi gli spunti, i desideri e le idee. Sofia immagina una biblioteca fatta solo di libri mischiati perché le piace mischiare le storie. Laura l’immagina abitata da gatti magici che ti danno un libro se dici “miao”. La biblioteca immaginaria di Sveva è “una barca che naviga verso un’isola di libri”. Idee che strappano un sorriso e possono sembrare strampalate. Ma se sentiste cosa esce dalla bocca di amministratori e politici riguardo alle biblioteche, sareste più generosi. Con i bambini, naturalmente.
Palazzo Reale
Pur essendoci stato diverse volte, conosco ancora pochissimo Genova. Tanto per dire: ignoravo perfino che avesse anche un Palazzo Reale oltre a quello Ducale. Ho colmato questa lacuna visitando quello che il filosofo Charles de Brosses ha definito “Il più bello tra tutti i palazzi di Genova”. Forse non lo sapete, come non lo sapevo io, ma de Brosses è colui che ha coniato il termine “feticismo” (ma anche Polinesia). La citazione la si legge – purtroppo – solo quando ormai si sta uscendo da Palazzo Stefano Balbi, appunto “Palazzo Reale”.
Ho gustato la piccola esposizione “I gentiluomini di Voet. Ritratti di Jacob Ferdinand Voet tra Roma e Genova”, ma soprattutto ho ammirato il “Ritratto di Caterina Balbi Durazzo” di Antoon Van Dyck, dipinto a olio su tela quasi quattrocento anni fa, nel 1624. Tre anni dopo l’artista fiammingo ha dipinto il “Cristo spirante” appeso nella Camera da letto del Re (Carlo Felice, che acquistò l’opera nel 1821). Intanto fuori la magnifica giornata di sole esaltava i colori della città e del Palazzo goduti dal Terrazzo Monumentale.
Librìdo
Il breve ma intenso soggiorno a Genova si è chiuso con un’ultima, piacevole, scoperta. Fermandomi per caso davanti alle vetrine di Librìdo in Piazza dei Truogoli di S. Brigida, mi sono domandato se fosse una libreria o un bar o un bar con libreria. A spiazzarmi erano le segnature su alcuni volumi che facevano pensare piuttosto a una biblioteca. E infatti Librìdo è tutte queste cose insieme, oltre a essere una piccola casa editrice.
Ho curiosato all’interno e poi ho ordinato un panino con una strana salsiccia di cui non ricordo il nome ma non ho dimenticato il sapore, scambiando qualche chiacchiera con la proprietaria Milena. Ne sono uscito con “Il manifesto della Librìdo” – un’intervista fantastica tra due personaggi: La Questione e La S’Ignora (proprio così!) che precede l’Endecalogo – e due dei tre volumi che compongono l’edizione Barion de “I fratelli Karamazov” di Dostoevskij (datata 1942). La ricerca del primo volume sarà un ottimo motivo per tornare a Genova.
Saul Stucchi