Beppe Severgnini ha indicato una quarantina di buoni motivi per cui torna in Sardegna da oltre trenta anni. La lista comprende ragioni pienamente sottoscrivibili da chiunque come il colore del mare, la forza trascinante delle danze popolari, la possibilità di trovare una spiaggia vuota anche in agosto e la bontà della cucina tradizionale, mentre altre sono più discutibili, anche se in sostanza l’elenco è più che valido. Senza grandi difficoltà, tuttavia, si possono individuare altrettanti motivi per raggiungere (e magari scoprire, se è la prima volta) l’isola di Sant’Antioco, la più grande di quelle che compongono l’arcipelago sulcitano e la quarta italiana per estensione dopo le due maggiori e l’Isola d’Elba. Il primo a venire in mente è la ricca vicenda storica che si è srotolata su questo “palcoscenico”, calcato in epoca preistorica da popolazioni della cosiddetta cultura nuragica e poi, solo per citare i protagonisti, da Fenici, Cartaginesi, Romani, Bizantini, Pisani e Aragonesi prima di finire sotto il governo dei Savoia.
L’album di famiglia si può “sfogliare” nel bel museo archeologico di Sant’Antioco città. In vetrine ben organizzate sono esposti i reperti trovati nel corso delle campagne di scavo e negli altrettanto generosi recuperi per opera delle forze dell’ordine e della magistratura (la passione per il “coccetto” di cui parla Fabio Isman nel suo libro I predatori dell’arte perduta ha contagiato anche i sardi). È assai istruttivo, soffermarsi davanti alla ricostruzione di una sezione verticale del tofet, ovvero l’area sacra nella quale venivano sepolti i bambini. Lo spaccato mostra, nel sovrapporsi di successivi strati, l’evoluzione delle forme delle piccole lapidi e delle urne. È ancora diffusa la teoria secondo la quale i Fenici e poi i Cartaginesi sacrificassero i primogeniti alla dea Tanit, ma basterebbe la considerazione dell’elevato indice di mortalità infantile per ritenerla una pratica suicida e dunque smentirla. Ha dunque più logica e valore quella per cui le urne contenessero i resti dei feti abortiti o dei bambini morti durante il parto o in tenerissima età: monumenti al dolore dei genitori e voti per nuove nascite, dunque, altro che crudeli sacrifici umani! Pensieri più ameni suscitano i modellini che ricostruiscono le imbarcazioni e l’area del porto: gli architetti contemporanei dovrebbero andare a scuola dai Fenici per imparare la perfezione della semplicità.
Tra gli altri motivi che vengono in mente ci sono le splendide spiagge (vanno citate almeno quelle di Maladroxia, Coaquaddus e Cala Sapone), i paesaggi che tolgono il fiato, i profumi che inebriano (è un peccato viaggiare con i finestrini chiusi), i sapori di una cucina che sa esprimersi al meglio sia con la carne che col pesce, la vicinanza con l’isola di San Pietro dove ancora avviene la mattanza del pregiato tonno rosso nella sua corsa mediterranea verso la riproduzione.
Chi l’ha già provata, aggiungerà senza dubbio la squisita ospitalità de La Jacaranda, locanda con cucina. E che cucina, viene da dire dopo aver gustato i piatti preparati nel rispetto delle stagioni, con un occhio di riguardo per la tradizione che però viene reinterpretata e aggiornata secondo l’ispirazione e la creatività di chi è ai fornelli. I risultati sono eccellenti e rimarranno impressi nelle papille gustative. Le sei camere doppie sono tutte dotate di bagno privato con doccia, asciugacapelli, climatizzazione autonoma e TV con decoder digitale terrestre. Chi non riesce a staccarsi da internet neppure in vacanza può sfruttare gratuitamente la connessione wi-fi. A disposizione dell’ospite c’è una ricca biblioteca di saggi sull’archeologia, la storia e l’arte della Sardegna e di narrativa di autori sardi per nascita o “vocazione”, dalla Deledda a Massimo Carlotto (cagliaritano per adozione), passando per Niffoi, Atzeni e Fois, senza trascurare le ultime leve come Milena Agus e Michela Murgia. Ma chiedete senza remore ai vostri ospiti consigli e informazioni sull’isola e sull’intera Sardegna. Riceverete risposte preziose che svelano soprattutto il sincero amore per questa terra ancora in gran parte sconosciuta, nonostante compaia spesso sui giornali, purtroppo a sproposito o in contesti poco lusinghieri.
La colazione viene servita in giardino, dove l’attenzione verrà subito attirata dalle oltre quaranta tartarughe di tutte le dimensioni (gli appassionati di questi animali dovrebbero riservare la camera in concomitanza con la deposizione delle uova, uno spettacolo che vale il rischio di un’insolazione, ci assicurano).
Il consiglio per tutti è quello di arrivare alla Jacaranda “fuori stagione”, magari sfruttando uno dei voli low cost che atterrano a Cagliari. Le iniziative culturali e gastronomiche organizzate a Sant’Antioco e sulla vicina isola di San Pietro costituiscono l’alibi perfetto per approdare a questa locanda da cui si ripartirà poi con dispiacere.
La Jacaranda
locanda con cucina
Via Risorgimento
Sant’Antioco (Carbonia-Iglesias)
Tel. 0781.82008
www.lajacaranda.it
Le ricette de La Jacaranda
Due ricette “di ispirazione” fenicio-punica
Quello fenicio è un menù che non si differenzia sensibilmente dalla classica mensa mediterranea, almeno quella non ancora contaminata dalla selvaggia invasione dei fast-food. Le farine e la semola, prodotte da orzo e frumento, la cui produzione era certamente favorita dal clima, formavano la base per pappe, minestre, semolini di vario genere; tra queste la celebre puls punica della quale è Catone a tramandarci la puntuale ricetta: farina mescolata ad acqua, formaggi, miele e uova; per ottenere, a cottura ultimata, qualcosa tra pizza dolce o ciambella. È per questi motivi che le nostre proposte di cucina “di ispirazione fenicio-punica”, per quanto riguarda in particolare i primi piatti, ricorrono all’uso frequente della semola.
Quella inumidita con poca acqua e olio, e poi cotta a vapore, per cucinare il cuscus, piatto molto diffuso in tutta l’Africa e giunto fino a noi, tramite i liguri deportati in Tabarka, isolotto non lontano da Cartagine, ed in seguito fondatori, nell’isola di San Pietro, di Carloforte, di cui il cashcà (pronunciare come il francese cache-ka) è piatto tipico.
E ancora la stessa semola che dopo essere stata lavorata con acqua ed olio per formare dei granelli che vengono tostati per diventare “fregula” .
Cashscà (o cus-cus)
La base di questo piatto è la semola di grano, cotta a vapore e successivamente condita con molte verdure, che si preparano a latere. Per la preparazione di questo squisito piatto, inumidire la semola con acqua e olio in modo tale che i vari granelli assorbano il liquido senza impastarsi tra loro. Compiuta questa operazione, procedere alla cottura: sovrapporre a una pentola contenente 4 l. di acqua la cuscussiera, che è simile a un colapasta in terracotta nella quale viene posta la semola e alcuni cubetti di cotica di maiale. Cuocere il tutto a vapore per circa 3 ore. Preparare nel frattempo le verdure, che costituiscono il condimento della pietanza: rosolare il cavolo tagliato a listarelle con cipolla e carota. Trifolare i piselli, unitamente ai carciofi in un tegame. Lessare i ceci (che si saranno messi in ammollo la sera prima) con alcuni spicchi di aglio. Quando la semola è cotta, condirla con le verdure preparate. Servire il cashcà tiepido (per cui, una volta condita la semola, il tutto andrà lasciato riposare per alcune ore).
Fregula con gamberi
La fregola, o fregula, è una pasta di grano duro tipica della Sardegna che difficilmente si trova fuori dall’isola. Da un certo punto di vista si puo’ considerare una versione di cous cous, anche se i grani tondeggianti della fregola sono più grossi delle dimensioni tipiche di questo. Inoltre la fregola dopo essere stata preparata da un impasto di grano duro e acqua, viene lasciata asciugare e poi tostata in forno, assumendo il tipico colore dorato. Buona per le minestre e ottima se condita con sughi a base di pomodoro. Cuocendo direttamente nel sugo non è così semplice da preparare la prima volta, perché bisogna ben dosare la quantità di liquido di condimento; può anche essere lessata come il riso (non per niente a Carloforte la fregola con i frutti di mare viene chiamata “pilau”, nome turco del riso pilaff!!), e condita dopo la cottura.
Ve ne diamo una versione marinara, al sugo di gamberoni.
In una pentola, di coccio o comunque dalle pareti spesse, mettete olio extravergine di oliva, un paio di spicchi d’aglio, un trito di prezzemolo e le teste dei gamberi che una volta rosolate per bene schiaccerete nella pentola con le robbie di una forchetta e poi toglierete dal soffritto. Aggiungere quindi un chilo di pomodori maturi a pezzi (in estate!) o l’equivalente di pomodori pelati. Fate cuocere fino a quando i pomodori inizino a disfarsi e poi aggiungete la fregola. Portate a cottura assaggiando di tanto in tanto per ottenere la consistenza desiderata e aggiustate di sale, eventualmente aggiungendo un po’ di acqua calda se la fregola si asciuga troppo. A fine cottura, comunque, il piatto deve risultare sempre abbastanza liquido in modo da poter lasciare la pasta a insaporire per qualche minuto prima di servire. Poco prima di spegnere il fuoco aggiungete i gamberi sgusciati e senza testa, che devono appena scottarsi. Cospargete di prezzemolo appena tritato e guarnite con un bel ciuffo dello stesso.
Ingredienti per 4 persone:
2 etti di fregola, mezzo chilo di gamberi (o anche di più, secondo la taglia), 1 chilogrammo di pomodori maturi o pomodori pelati, due spicchi d’aglio, prezzemolo, sale e olio extravergine di oliva.