Ieri sera, alla libreria Feltrinelli di Piazza Duomo a Milano, Marco Carminati ed Eva Cantarella hanno presentato a un folto pubblico il libro I predatori dell’arte perduta di Fabio Isman, edito da Skira.
Carminati ha elogiato l’approccio da detective di Isman che è riuscito a far parlare chi non aveva intenzione o interesse per farlo, ovvero i personaggi coinvolti nel traffico illegale di reperti archeologici. Ha poi ricordato i dati impressionanti di questo fenomeno, ben illustrati nel libro, e il numero particolarmente elevato di persone che ruotano attorno a questo mercato che ha molte caratteristiche in comune con quello della droga (e non è un’esagerazione giornalistica, purtroppo). È infatti incredibilmente redditizio, ma a differenza di quello degli stupefacenti è decisamente meno pericoloso: il rischio di essere colti in flagrante è molto basso e le pene, quando previste, sono ridicole. A dare l’idea del giro d’affari basta dire che l’80% degli oggetti sul mercato è di provenienza clandestina.
Isman è riuscito ad abbattere la barriera di diffidenza elevata dai protagonisti e a raccogliere le loro memorie, pennellando “medaglioni” assai gustosi (ma pur sempre con un retrogusto amaro) dei tombaroli, il primo anello di una catena che spesso porta a musei di altissimo prestigio, purtroppo in parte offuscato da pratiche d’acquisto che variano dall’ingenuità all’illegalità più palese e sfrontata.
Carminati ha voluto soffermarsi su un altro aspetto del fenomeno, ovvero il ruolo delle case d’asta che tentano di minimizzare le proprie colpe quando vengono “pizzicate”. Cambiano i nomi e il grado di responsabilità, mentre resta invariata la scusa: “si trattava solo di coccetti”.
La professoressa Cantarella ha invece sottolineato l’importanza di questi “coccetti” per lo studio dell’antichità, purché recuperati nel loro contesto. È proprio la decontestualizzazione il crimine peggiore (dopo ovviamente il danneggiamento o addirittura la distruzione dei reperti), da chiunque venga perpetrato. Ha infatti ricordato la pessima abitudine degli “archeologi” che scoprirono Ercolano e Pompei di selezionare gli oggetti ritenuti “osceni” (come le figure falliche e le pitture a tema erotico) per relegarli in una sala del museo il cui accesso era consentito soltanto a discrezione.
Decontestualizzare, ha ribadito la professoressa, equivale a distruggere un oggetto. I nuovi studi sono riusciti a modificare l’antica opinione secondo la quale gli oggetti “osceni” rinvenuti nelle città vesuviane provenivano da lupanari. Il numero e la frequenza dei ritrovamenti aveva portato erroneamente a credere che in pratica esistessero quasi esclusivamente postriboli. La realtà era molto più semplice e insieme più interessante per lo studio della sessualità degli antichi: molti degli oggetti “osceni” appartenevano infatti a famiglie “rispettate” (esattamente come succede oggi, del resto).
Da parte sua Fabio Isman, dopo aver ringraziato i collaboratori e l’editore, ha raccontato alcuni episodi particolarmente significativi, elogiando l’operato del nucleo dei Carabinieri incaricato del recupero dei beni culturali e quello dei magistrati che si trovano a operare entro un quadro legislativo per nulla edificante (eufemismo per dire deprimente).
Il tanto ventilato giro di vite sull’utilizzo delle intercettazioni telefoniche avrebbe conseguenze disastrose sulle indagini in corso e future, rendendo pressoché impossibile il recupero dei reperti scavati clandestinamente, al momento l’unico motivo di soddisfazione, dato che tutti i protagonisti del saccheggio del nostro patrimonio archeologico la fanno sempre franca.
Saul Stucchi
Fabio Isman
I predatori dell’arte perduta
Il saccheggio dell’archeologia in Italia
Skira
256 pagine, 19,00 €
www.skira.it