Dodicesima puntata del reportage di Marco Grassano “Ritorno a Chanià”.
Ale 7.06 (e poi di nuovo alle 7.54) sento suonare le campane della Cattedrale: una più acuta e frequente, l’altra più grave e pausata, ma stavolta non riesco a individuarne il ritmo.
Devo portare a casa un’icona raffigurante L’Ultima Cena. Su consiglio di Kostas (che ieri aveva telefonato al gestore, preannunciando la mia visita), raggiungo nella Chalidon, in corrispondenza del sagrato, il negozietto di Κορνίζες, Έργα τέχνης, Εικονίδια (Kornìzes, Èrga tèchnis, Ikonìdia) Δρακάκη, con dicitura ripetuta in inglese: Framing, Painting, Icons, titolare la signora Drakàki.
All’interno, zeppo di tele a olio d’ogni soggetto, accatastate un po’ dovunque, mi accudisce un uomo dai capelli bianchi. Gli comunico che vengo da parte di Konstantinos, della libreria Mediterraneo, e che vorrei un’icona con Το τελευταίο δείπνο (To teleftéo dípno). “Let me see, The Last Supper… Here you are!” risponde l’anziano, tirando giù dalle scaffalature sulla destra due dipinti di dimensioni diverse. Scelgo, per 30 euro, quello un po’ più piccolo, su raffinata tavoletta di legno dorato.
Verso la fine della via, a destra, davanti a un edificio dalla vetrina di pallido legno grigioverde con la scritta Δημοτική Πινακοθήκη Χανίων (Dimotikì Pinakothìki Chanìon) – Municipal Art Gallery, è esposta la grande locandina che annuncia un’interessante mostra: “Greece after the Revolution” through the artistic treasures of the Krasaki Collection. Verrò a visitarla.
Percorro interamente, per il lungo, il giardino dei truci patrioti. Attraverso quindi la strada di fronte a una rivendita di pesce fresco, sempre animata di clienti, e proseguo su questo lato. Poco più avanti, mi infilo nel passaggio pedonale di accesso alla Stazione degli Autobus. C’ero già venuto a comprare il biglietto (Chanià-Stavròs; Martedì 14/12/2021, h 10.00; 2,10 €,) e ci verrò ancora per andare a Plataniàs – e infine all’aeroporto.
Salendo, controllo di biglietto e pass. Mi siedo a destra, nelle prime file. La corriera parte. Sono l’unico passeggero. Seguiamo la direzione est, disegnando, fra le vie, un tracciato non memorizzabile. Ci fermiamo a caricare un uomo maturo, che prende posto più indietro, dall’altra parte, e inizia a chiacchierare con l’autista.
Raggiungiamo il sobborgo di Chalépa. Mare a sinistra e un dosso costellato di pini a destra. Ci portiamo verso l’interno, verdeggiante e roccioso. Curve. Un incrocio con al centro una grande aiuola quadrata. Andiamo a sinistra. Un rettilineo solca la campagna, leggermente mossa. Abitati di scarsa urbanizzazione; gli edifici mi ricordano, per la loro architettura, quelli che trovavamo ovunque girando Malta. Altre curve. Ulivi.
Rivediamo la marina. Tornanti accentuati, quasi a gomito, ci fanno scendere verso la costa. Il percorso si incide nella pietra. Curve, fra esigui agglomerati abitativi e paesaggio brullo, poi filiamo dritti lungo vigneti spogli e ulivi lameggianti.
Ci avviciniamo all’imponente emergenza rocciosa che domina la veduta. Una modesta frazione. Di fronte a un distributore di benzina, lavori di scavo invadono gran parte della carreggiata. Li superiamo con cautela, sfiorando il lampione sulla destra.
Incroci. Un’ultima svolta a dritta. Assecondiamo una via di terreni vuoti, di scarse attività ricettive e di qualche rada villetta. La corriera si arresta al capolinea, proprio di fianco a quella che tutti chiamano “la spiaggia di Zorba”. L’altro viaggiatore, inspiegabilmente, rimane a bordo.

Avanzo lento sulla sabbia, percorsa da un’infinità di tracce – salvo che dove la carezza frusciante, cadenzata delle deboli onde arriva ad allisciarla e a compattarla, esalando un forte sentore salmastro. Ho di fronte la rupe arida, curvilinea, crestata di aspra pietra verticale che nel film fa da sfondo ai due protagonisti durante la danza del celebre sirtaki (Nota 1). L’acqua, alla sua base, è di zaffiro, per poi farsi di turchese e quindi di smeraldo man mano che lo sguardo la riaccompagna verso l’arenile deserto.
Un’altra tappa del mio pellegrinaggio in onore di Theodorakis è compiuta. Non so ballare, ma mi dispongo, con scarsa originalità, nella posizione delle braccia tese di lato, continuando a fissare commosso la piccola baia e ad accogliere nelle narici l’amaro aroma della salsedine.
Come d’accordo, arriva Rav David, che abita a Stavròs. Mi carica in macchina e mi conduce, dopo un brevissimo e polveroso tragitto fra i disordinati immobili dello stento caseggiato, su un piccolo promontorio, dove l’attività estrattiva – di cui sono visibilissime le cicatrici – ha ricavato una specie di piscina naturale. Mi informa che i Veneziani hanno preso qui i blocchi di sasso per edificare la “loro” Chanià.
Ci portiamo verso sud, fra incolti e uliveti. Zigzaghiamo su strette stradine, in un paesaggio semidesertico che si fa un po’ più verde, anche di palmizi, le poche volte in cui lungo il percorso si materializza qualche struttura turistica. Campagna di vigneti e ulivi. Serre. Tratti brulli e altri a rada piantagione. Senza cambiare scenario, finiamo in una strada di poco maggiore, che attraversa, più in là, un gruppo di capannoni produttivi e di eleganti residenze private. Fra gli uliveti, e poi le vigne, si allunga infine un’allea di cipressi orizzontali; la parte inferiore del tronco è imbiancata a calce. Il rabbino mi dice che tutti questi terreni appartengono al Monastero di Agìa Triàda (Santa Trinità, già lo sapevo), che li tutela e li coltiva ricavandone, per la vendita, olio e vino biologici.

Parcheggiamo nell’ampio piazzale che fronteggia l’imponente complesso ocra cui si accede da una scalea centrale dominata dalla torre campanaria. La mia guida racconta che fu fondato, nel Seicento, da un certo Zangarolo (la notizia mi strappa, ahimè, un sorriso poco devoto, ricordandomi l’esilarante parodia con Franco Franchi “Ultimo tango a Zagarol”) e realizzato in stile veneziano. Salendo verso l’ingresso, fotografo la campagna prospiciente; sullo sfondo, un ampio capannone e il confine nitido del mare.

Nel chiostro – o piuttosto cortile, ricco di verzura – numerosi mici di vario aspetto e taglia si avvicinano, chiedendo di essere coccolati: soprattutto uno bianco a chiazze bigie, un “pellino” (espressione che in casa mia usiamo per i cuccioli) bianco e bardo, un fulvone e un tigrato. Quasi tutti hanno l’orecchio sinistro inciso da una tacca, come se i monaci avessero voluto contrassegnarli per distinguere i loro, cui dare cibo, dagli eventuali randagi, simili ma indegni. Cosa che, francamente, non mi pare molto caritatevole. D’altronde, quando entriamo in chiesa per esaminare la sfarzosa iconostasi, e uno degli animali ci segue, la donna che pulisce l’intarsiato pavimento di marmo grigio lo scaccia in malo modo con la scopa. Ben diverso l’atteggiamento in Sinagoga, dove i gatti li lasciano sonnecchiare sulle panche.

Ripartiamo. Prendiamo subito a dritta, tra la campagna e un lungo rilievo roccioso, avaramente chiazzato di cespi scuri. La strada sterza a inoltrarsi tra le scabre, ripide pieghe dell’altura. Superiamo un paio di cappellette o edicole votive, in uno scenario che mi richiama la Provenza più rude – anche per il colore rossiccio del poco terreno presente. Curva a U e controcurva, in pendenza. Qualche altra sinuosità minore. Sfociamo in una spianata senza asfalto. In fondo, un muretto di sassi in cui si apre una porticina di legno a vista e oltre il quale si gonfiano turgide chiome sempreverdi.
Quando ci avviciniamo al cancelletto, compare e prende a miagolarci una giovane gatta bianca, visibilmente affamata. David tiene sempre in macchina, per la bisogna, un sacchetto di croccantini. Gliene deposita al suolo un’abbondante manciata; lei inizia a divorarli con avidità. Poi le versa, ripetutamente, un po’ d’acqua nel tappo della bottiglia, visto che la bestia sembra avere anche sete. Evidentemente, i monaci non le danno né da mangiare né da bere, mostrandosi ancor meno misericordiosi dei confratelli di prima. Magari ritengono edificante estendere a tutti gli esseri del circondario le proprie astinenze penitenziali.

Data la desolazione che ci attornia, l’area cintata appare insospettatamente rigogliosa: alberi vetusti, pianticelle recenti, cespugli, erba. I “fratacchioni ora et labora” sembrano molto attivi anche qui. Seguiamo il camminamento a larghi ciottoli – squadrati e irregolari – che corre nel mezzo, fra due basse reti metalliche. Oche vagano sulla sinistra, oltre una fila di ulivetti novizi. Un gruppo di variopinti tacchini viene verso di noi, gloglottando e facendo la ruota.
Ecco il robusto parallelepipedo giallo-rossiccio del Monastero di Gouvernetos, che racchiude la chiesa nell’abbraccio rassicurante della corte. Lavori edili (presumo effettuati in economia) sono rumorosamente in corso sul retro. Ci affacciamo al portone. Un religioso arriva da sinistra, avvertendoci che non è possibile scattare foto. Qui felini non se ne vedono, e non mi stupisco.

Poco oltre, una seconda porticina di legno (che – informa un piccolo avviso – va tenuta sempre chiusa, per evitare il passaggio degli animali) conduce fuori dal recinto, immettendo nello slargo da cui esordisce il sentiero per la Grotta (Σπήλαιο, Spìleo) di Arkudospilio. Vi sorge un cippo, credo in memoria dei Partigiani. Subito dopo, il viottolo inizia a intaccare la parete destra di una forra (la guida la chiama Gola di Avlàki). Allo sbocco della valle, il trapezio di mare è velato da una cupa cortina di pioggia. Mi incuriosisce subito, fra i ciottoli della ripa, il ciuffo di foglie carnose che spunta da un bulbo (Nota 2).
Il fondo è abbastanza irregolare; i sassi sporgenti richiedono una continua attenzione a dove si poggiano i piedi. Il tracciato è invece tendenzialmente rettilineo. Tratti in pendenza mettono alla prova gambe e fiato, a scenderli e a salirli. A metà della parete di fronte, come abbandonate in mezzo al deserto, una chiesetta e un paio di piccole costruzioni di servizio.
Raggiungiamo un esiguo pianoro, sul quale sorgono ruderi di foggia ecclesiastica e si spalanca la bocca rettangolare di una caverna. Si notano d’intorno pietre curiosamente perforate, forse dallo stesso fenomeno carsico che ha scavato la spelonca. Il sentiero prosegue, in discesa, verso la costa (e la spiaggia). Noi, però, ci fermiamo qui. Il pulviscolo d’acqua sopra il mare ha generato un accenno di arcobaleno. Entriamo a esplorare la grotta, che presenta segni fuligginosi di remota e assidua frequentazione: per finalità più cultuali che abitative, pare.

Torniamo a prendere la macchina. La gatta bianca è sempre di fianco al cancelletto. Le offriamo una nuova razione di cibo e di acqua. Poi mi metto a coccolarla, povera bestia.
Riguadagniamo il centro di Stavròs e ci dirigiamo verso la città. Oltrepassiamo anche noi, in direzione contraria, i lavori stradali. A Chalèpa, quartiere che secondo il rabbino meriterebbe di essere recuperato e valorizzato, transitiamo accanto alla tomba di Venizelos. Compiamo quindi una deviazione fino al litorale, per visitare la strada delle concerie – manifatture un tempo importantissime, nell’economia di Chanià, ora purtroppo in stato di abbandono. Fuori da un portone noto un bancale carico di pelli. Chissà da quanto tempo si trovano là. Che inutile spreco. Al termine della via, un porticciolo dal quale fotografo, verso occidente, la costa.
Puntata 12 – segue.
Marco Grassano
Nota 1: La scena si può vedere su YouTube.
Nota 2: Una collega naturalista mi informa trattarsi della Scilla marittima (Drimia maritima), detta anche “cipolla marina”. Nel momento in cui l’ho osservata, la pianta era nella fase di quiescenza stagionale, ma durante la fioritura il suo aspetto si fa imponente. Rimando al forum “L’angolo dell’amicizia”.