Quarta puntata del reportage di Marco Grassano “Ritorno a Chanià”.
Verifico, sulla tabella affissa alla bacheca esterna, di ricadere negli orari di apertura, quindi suono al citofono. Si illumina la lampadina della telecamera. Mi colloco di fronte, per essere identificato. Viene ad aprire il portoncino un giovane alto, sorridente, che mi saluta in inglese. Gli dico di voler visitare il tempio. Mi fa passare nel verdeggiante cortiletto di accesso, quindi mi accompagna dentro. Dopo avermi chiesto di dove sono, estrae dall’espositore e mi porge un opuscolo illustrativo plastificato, in italiano.

Mi guardo in giro. Nella parete di fronte, ampi archi a sesto acuto. Pavimento di marmo, a scacchi ardesia e bianchi. Tappeti in astratte figurazioni mediorientali. Volta di legno lucido. Panche dallo schienale intagliato, con una serie di cuscini disposti lungo il sedile. Su uno di essi, una gatta a pelo lungo, grigia-rossa-bianca, accoglie ronronando le mie coccole e si mette ad agitare le zampe anteriori, come se pigiasse l’uva.

Alla mia destra, una sorta di pulpito; a sinistra, un ridotto spazio di celebrazione (o recinto sacro), delimitato da un’esile balaustra lignea, accoglie una bacinella piena, nella quale galleggiano, spenti, piccoli lumini di cera.
Apprendo dallo stampato le vicende storiche del delubro e della comunità di fedeli. Mi rattrista molto la fine tragica degli ebrei della cittadina, periti tutti, nel 1944, per l’affondamento – da parte di un sottomarino inglese – della nave con la quale venivano deportati in Germania, assieme a prigionieri italiani e greci. Mi auguro che il comandante che ha ordinato di lanciare i siluri qualche rimorso lo abbia poi avuto, ma ne dubito. Forse si è giustificato con la riflessione proposta da Antonio Gramsci in un celebre articolo del gennaio 1921: “La guerra è la guerra. In guerra e in una rivoluzione, avere pietà di dieci è essere crudeli con mille”. Chissà.
“La sinagoga è stata ufficialmente riconsacrata il 10 ottobre 1999, in presenza di circa 350 persone, membri di comunità ebraiche provenienti da tutta la Grecia, rappresentanti delle chiese ortodosse e cattoliche di Chanià, insieme a dignitari locali e internazionali, come l’ambasciatore tedesco in Grecia”; “Dal 2010, Etz Hayyim è gestita da un’organizzazione senza scopo di lucro, in collaborazione col Consiglio Centrale delle Comunità Ebraiche in Grecia. (…) È una sinagoga non confessionale, dove si celebrano varie festività ebraiche ed eventi culturali non religiosi, tra cui conferenze, concerti e mostre. Un piccolo staff si occupa di intraprendere continue ricerche sulla storia degli ebrei cretesi…” leggo ancora.
Visito, in silenzio, il minuscolo cimitero, ordinatamente imbiancato a calce, cui si accede attraverso l’altra porta dell’edificio. Le scarse lapidi superstiti, sbreccate o del tutto infrante, mi mettono tristezza.
Domando alla coppia di ragazzi che armeggiano al computer all’interno dell’ufficietto ai piedi della scala, nel primo cortile, se posso assistere alla funzione prevista per oggi alle 17. Mi rispondono di sì: nelle loro cerimonie liturgiche, sono ben accetti anche i non ebrei. Aggiungono che il limite sanitario di capienza, per evitare assembramenti, è di 20 persone: ma è assai improbabile che lo si raggiunga.
Qualche minuto prima dell’orario stabilito, suono di nuovo e vengo fatto accomodare al tavolinetto sotto un ulivo. Un certosino, cieco da un occhio, si affianca, in cerca di carezze, alla gatta tricolore di stamane. Il libercolo rosso che mi viene consegnato – assieme alla kippah, da indossare nel tempio – riporta i canti e le letture del giorno, e una spiegazione sul rituale specifico (più sefardita che askenazita, e con diverse peculiarità) secondo cui si celebra lo Shabbat a Creta. Poco dopo, arrivano – e mi si presentano – il rabbino David e un pugno di devoti: due signore anziane e il marito di una di esse; un’altra donna più giovane; una coppia di ventenni, biondicci sia lei che lui. Parlano fra loro inglese, generalmente con accento tedesco.
Li seguo. Non solo mi lasciano presenziare al rito, ma mi coinvolgono attivamente in esso, facendomi accendere uno dei lumicini della bacinella e leggere (nella versione di Re Giacomo, riportata a fronte: in ebraico non sono ovviamente in grado…) un brano della Torah.
Alla fine, augurandoci reciprocamente “Shabbat shalom”, condividiamo, con un sorriso, fettine di pane senza sale (però lievitato) e di ciambella dolce, accompagnate da un dito di vino rosso.
Rav David e il gruppo dei più anziani mi invitano ad accompagnarli al porto, per bere qualcosa assieme. Accetto. Mi incammino con loro lungo i vicoli ormai notturni.
Puntata 4 – segue.
Marco Grassano