Con questa diciassettesima parte si conclude il reportage di Marco Grassano sulla Provenza.
Ci restano da visitare due villaggi.
Aprile. Arriviamo a Vernègues e attraversiamo il paese. Alla luce del giorno, notiamo che le insegne con la scritta Santonnier sono parecchie. Svoltiamo in direzione della crêperie. Lasciando la macchina nel parcheggio del locale, ci avviamo a piedi verso le rovine di Vernègues-le-Vieux, abbandonate dai tempi del terremoto. Cavità ad arco, rivestite di pietre, affondano nel pendio come orbite vuote. L’ombra delle nubi proietta mobili chiazze sul dolce andamento ondoso dei rilievi lontani. Il loro verdino azzurrognolo ne risulta ocellato di blu cupo.

Saliamo lungo un viottolo, chiuso all’inizio da una catena. Pochi secondi dopo, odo alle mie spalle uno squassare metallico, un tonfo sordo e un gemito flebile. Voltandomi, vedo una giovane turista accasciata. Mi avvicino per soccorrerla e la aiuto a rialzarsi. Si lamenta, contusa ai gomiti e alle ginocchia. Mi spiega di non aver visto l’ostacolo perché stava sbirciando, di lato, la remota sagoma della Sainte-Victoire.
Gironzoliamo lungo il pianoro, impietosamente spazzato da un vento freddo. Una cigolante scala di ferro rugginoso ci conduce su una torretta tonda, dalla quale, grazie a una tavola orientativa, possiamo esaminare e decodificare il dispiegarsi sul paesaggio di curve e chiaroscuri. Poi, intirizziti, scendiamo. Passiamo attraverso i ruderi, anche se numerosi cartelli segnalano il pericolo e il divieto. Ci si immalinconisce osservando tanta desolazione, tanti dettagli rimasti a testimoniare una quotidianità distrutta per sempre.

I lastrici che un tempo costituivano la piazza sono seminascosti da una spessa coltre erbosa. I piccoli abituri, scavati a viva forza nella roccia, si aprono beanti come crani. Le pareti più massicce degli altri edifici sono sgretolate. Per fortuna, vicino alle pietre di una torre cadente, un ampio cespo di rosmarino selvatico punteggia il proprio verde opaco di serafici fiori cilestrini, mostrando che, aldilà di ogni considerazione, la vita procede senza curarsi delle sventure umane.
Cavaillon
Luglio. Ci affacciamo, dall’alto, su Alleins, circondato da rocce, querce e ulivi e fitto di abitazioni disposte in ordine apparentemente casuale. Passiamo Mallemort ed entriamo in Cavaillon da Avenue Sarnette. Troviamo posto per la macchina in Avenue Joffre, di fianco a un’autorimessa. Ci avviamo, a piedi, verso il centro, seguendo alcuni cartelli che propongono una “promenade historique”.
Man mano che ci avviciniamo alla cattedrale, sentiamo crescere il volume della musica. All’ombra di due filari di platani, progressivamente ramificati in forcelle, un folto pubblico seduto ascolta con attenzione l’orchestrina sul palco. Un uomo in pantaloni bianchi e camiciotto marroncino, probabilmente il Sindaco o qualche assessore, presenta al microfono il gruppo, denominato “L’armonie des enfants de Durance” e diretto dal Maestro Philippe Surle. Il Pippo Baudo del Lubéron passa quindi a introdurre i successivi brani, tutti piuttosto noti: La vie en rose, Je ne regrette rien, il samba da trenino di capodanno Brigitte Bardot.

Nell’impasto sonoro prevalgono gli ottoni, in particolare i due flicorni, rendendo decisamente ridicole alcune delle melodie. Altre, bisogna dirlo, sono bislacche di loro. L’inno provenzale La coupo santo, per esempio, su testo (per noi incomprensibile) di Frédéric Mistral, che viene eseguito al termine del concerto, si presenta come un minestrone di battute musicali riconducibili, di volta in volta, a Yellow Submarine, al Venite adoremus, all’Inno dei Lavoratori e a qualche canto alpino: il tutto uniformato in un ritmo e una tonalità che richiamano, in maniera fin troppo evidente, La marsigliese. Come si possa ascoltare questo goffo ibrido con “il rispetto e la commozione” richiesti dal presentatore-sindaco, proprio mi sfugge.
Passiamo di fronte alla Cattedrale romanica e al chiostro. Frughiamo fra le vie in cerca della piccola Sinagoga, ma non riusciamo a individuarla. Torniamo quindi sulla piazzuola dello spettacolo, da dove, per alcuni passaggi a volta sotto le case, raggiungiamo Place du Clos. Il ridotto, duplice arco romano in pietra grigia mostra, sull’archivolto e subito ai fianchi, lievi, quasi commoventi decorazioni stilizzate.

Pochi metri dopo, a sinistra del palazzo dal languore coloniale posto sul retro del monumento, imbocchiamo un ripido sentiero che porta verso il costone sovrastante. Da lassù fanno capolino l’abside e la torretta campanaria della cappella di St. Jacques.
Cominciamo ad arrancare faticosamente per la stretta mulattiera, che si inerpica in gradini rudimentali a svolte serpeggianti tra gonfi cespugli e piccoli ulivi le cui fronde lameggiano d’argento biavo sulla filigrana nera dei tronchi.

A una curva, tentiamo inutilmente di decifrare la frase di Mistral incisa su una lastra di pietra. Più avanti, affacciandoci a un belvedere, dominiamo un uliveto attraverso cui traluce il borgo. Leggiamo il tabellone – apposto dal Municipio – nel quale vengono sintetizzate le vicende storiche dell’olivicoltura. In calce, a mo’ di efficace commento, due brevi massime: “L’ulivo a cent’anni è ancora un bambino” e “L’ulivo è un albero immortale e poco esigente. Esso vestirà ancora per molto tempo questo piccolo angolo al riparo dal mistral”.
Giunti ansimando in cima alla falesia, ci fermiamo a contemplare il paesaggio. Le coltivazioni di prodotti ortofrutticoli ai quali Cavaillon deve la propria fama. La scia divagante e allumacata del fiume, che innesca un crepitio di bagliori. L’aggrumarsi complesso, davanti a noi, di emergenze rocciose, articolate in botri e forre, greppi, spigoli e mammelloni, linee su cui la luce e l’ombra sciorinano la loro mobile tastiera.
Ci portiamo verso la chiesetta, sobria fin dallo spoglio nartece, immersa nei molteplici verdi del giardino. È chiusa, come pure l’eremo di fianco, costituito da due ridottissime stanzette in pietra grezza.
Le cicale friniscono a più non posso. Il sole picchia senza pietà. La sete inizia a farsi sentire. Scendiamo a passi lenti e a capo chino fino in piazza, dove ci rifocilliamo con una birra.
Ripartiamo per Ménerbes. La Provenza continua…
Diciassettesima parte – fine.
Marco Grassano
Foto di Marco ed Ester M. Grassano
Didascalie:
- Abituri vuoti a Vernègues-le-Vieux
- Mura sgretolate
- Il concerto di Cavaillon
- L’arco romano e il palazzo coloniale
- I piccoli ulivi luminosi