È estate, una giovane coppia lascia Parigi in treno per recarsi in una casa in campagna. Si saprà qualche pagina dopo che si tratta della pittrice impressionista Berthe Morisot e di suo marito Eugène Manet, fratello del più celebre Édouard Manet.
Alla stazione di Soullion (un villaggio inventato), incontrano Nine, una diciassettenne, dai «capelli rossi e sporchi». I suoi riccioli, lucenti come il rame spazzolato, scendono sulle spalle, saltando verso i suoi reni. Niente trecce, niente cappello.
Allora, «Berthe sente una fitta al cuore, un ronzio all’inguine». Riconosce «il trionfo negli occhi degli adolescenti: hanno vinto alla lotteria senza aver scommesso un soldo», anche se la stessa Berthe non si ritrova più giovane: ha trentaquattro anni, il che permette di collocare la storia: è il 1875. Berthe e suo marito hanno fame, non sanno accendere la stufa, vorrebbero fare di Nine la loro serva, ma la giovane contadina non vuole legarsi a loro con un contratto, per mantenere la sua libertà.

Per i coniugi Manet quel viaggio è un “luogo” di parole e colori che si mescolano. Le notti e il nero diventano «un sapiente miscuglio di blu, verde e rosso» capace di liberare la loro fantasia.
Pur usando la terza persona, Mika Biermann riesce a far vedere ‒ come se lo scrittore avesse tra le mani una macchina da presa e usasse la tecnica cinematografica della soggettiva ‒ piante, fiori, pezzi di cielo che prendono vita e senso sotto lo sguardo di Berthe. Ben descritti gli odori, i colori e gli elementi naturali che non sono mai sfondo ma fonte di vita, che si contrappone alla città.
Berthe ritorna a uno stato di natura. S’immerge nelle acque di un fiume, cerca di scoprire la volontà schopenaueriana al di sotto dell’apparenza delle cose.
Nine ‒ la ragazzina incontrata alla stazione, picchiata dal padre, ma indipendente e orgogliosa sognata tutti gli uomini del villaggio, compreso il prete nella sua tonaca logora ‒ diventa per Berthe e per il marito una fugace ossessione.
Berthe ne rimane ammaliata perché la giovane vive libera, fuori dalle imposizioni borghese: come il corsetto, il cappello, il nastro al collo. Così inizia un’avventura che ha a che fare con la pittura, il mistero dei tocchi dei pennelli che sfiorano la tela, ma finiscono per accarezzano la curvatura di una spalla. Così quella vacanza di pochi giorni diventa un ritorno alla Natura. Una natura che porta Berthe e il marito alla scoperta di un eros, per il tempo, “impossibile” anche solo da immaginare. Grazie al quale entrambi danno vita alle loro fantasie nascoste.
L’occhio e la sensibilità di Berthe raccontano il nero della notte che sui rivela essere «un sapiente miscuglio di blu, verde e rosso». A Parigi, la donna era stata una modella di Édouard Manet, poi, aveva deciso che il suo posto era dall’altra parte della tela. Grazie alla pittura capisce il mondo, soprattutto quello che nasce dal Piacere, figlio di Eros e Psiche, che i corsetti e le “buone maniere”, le madri hanno sempre nascosto sotto quel categorico “non sta bene”.
Il lavoro di pittrice assorbe Berthe, il giorno come la notte. Così pensa che «l’arte della pittura è [anche] fare delle scelte». Cosa non facile. Soprattutto per una donna, che «lavora, lotta, guadagna un pezzo di cielo, un po’ d’aria fresca, un po’ di profondità». Consapevole sempre di più che «ogni pennellata richiama la successiva. Da un momento all’altro si può cadere nel vuoto, finire in un vicolo cieco, aggiungere troppo sale alla zuppa: non c’è da stupirsi che questo mestiere non attiri folle».
Nella terza e nella quarta notte Mika Biermann si concede le sue licenze: Berthe e suo marito ritornano allo stato di natura, rompono le catene descritte da Freud in Eros e civiltà, e, finalmente, si immergono nelle acque della natura.
Il giorno dopo, purtroppo, indossiamo di nuovo il «vestito da viaggio» perché Eugène vuole tornare a Parigi. Berthe si rende conto che non parleranno mai di quello che è successo. E «che quella notte verrà cancellata dalla loro storia, e dalla storia dell’arte. Avrà ancora il suo dipinto e i suoi occhi in cui piangere». Berthe si sente obbligata a rinunciare al ritratto di Nine, che ha iniziato. Continuarlo lontano da quel luogo non avrebbe senso. Così sente che sia giusto abbandonarlo.
In futuro la pittrice impressionista dipingerà sua sorella, suo marito, il suo bambino non ancora nato; abiti abbottonati, corsetti e stivaletti. Nessun modello impertinente, nulla che ricordi quella libertà incarnata, che ha visto e che con suo marito ha amato. Si consolerà con l’idea che il ritratto di Nine era «un bel quadro». Uno dei migliori che ha realizzato. E per lei «questo è già tutto». Ciò che è successo nella casa di campagna, non può altro che essere dimenticato e custodito nell’ombra del silenzio. Le Tre notti nella vita di Berthe Morisot di Mika Biermann (traduzione Chiara Licata, L’Orma Editore, 2024) raccontano la gioia, la malizia e il desiderio. .
Biermann racconta di una Berthe intensa, lucida e vibrante, ma che è tale solo nell’intimità di poche notti, di un breve soggiorno in campagna. Mostrando tutta la forza e la voglia di dipingere che le permisero di essere donna e pittrice nel 1875, ma anche ciò che senza dubbio le impedì di ottenere di più in una società conservatrice.
Claudio Cherin
Mika Biermann
Tre notti nella vita di Berthe Morisot
Traduzione di Chiara Licata
L’Orma
2024, 120 pagine
13 €