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“Una storia di arte e di poesia”: mostra a Mendrisio
Lo scorso 30 marzo al Museo d’Arte di Mendrisio ha aperto i battenti la mostra Una storia di arte e di poesia che dettaglia nel sottotitolo un argomento che altrimenti sarebbe sconfinato: Arcangeli, Bertolucci, Biamonti, Isella, Orelli, Sereni, Tassi, Testori e i loro artisti. Curata da Simone Soldini insieme allo stesso museo (di cui Soldini è stato direttore per diversi anni), si potrà visitare fino al 6 luglio.
È una collettiva unica e inconsueta e se ci si domandasse “chi è protagonista in questa mostra?”, sarebbe da rispondere “la lettura dell’arte”. Questa viene presentata in otto capitoli distinti che sono altrettante collettive, mentre il salone del museo è riservato a un’appendice storica. Nel percorso espositivo forma e contenuto trovano un equilibrio profondo.
Gli autori qui riuniti hanno avuto coinvolgimenti diversi nella critica d’arte: alcuni marginali e occasionali, altri più sistematici. Tutti, però, in qualche modo operarono all’ombra del “grande magister”, ovvero Roberto Longhi, il cui insegnamento ha influito su ciascuno di loro, come peraltro su tutto l’ambiente culturale italiano. Ognuno di loro ha espresso la propria forza letteraria e tutti sono stati portatori di una lettura poetica delle opere.
Ma non si pensi che si tratti di una “mostra a frammenti” perché fittissimi sono gli intrecci tra di loro e le loro opere. Possiamo anzi parlare di un mondo unico, o – ancora meglio – di un universo unico, composto da galassie o cerchie. Nella prima gli amici, poi gli artisti un po’ più lontani ma tenuti comunque sotto la lente d’osservazione e infine i fari di riferimento, come Morandi, Klee, Giacometti, Bacon…
Lo stesso curatore Soldini avverte che si tratta di una mostra da guardare con pazienza, che può prendere ore. Il tempo è necessario per apprezzare come merita la scrittura ad alta densità poetica degli autori selezionati. È infatti una mostra da leggere, non soltanto da guardare.
Ciascun visitatore avrà ovviamente le proprie preferenze, sia per quanto riguarda le opere sia per i testi critici. Gli potrà capitare di trovare più interessanti questi ultimi o, viceversa, ammirare l’opera e considerare “debole” o parziale la “didascalia” che la accompagna (la quale, tuttavia, va sempre considerata una citazione da un contesto più ampio e articolato).
Ma è ormai il momento di offrire qualche esempio di dialogo tra opera d’arte e critica d’artista. A Ibiscus di Piero Guccione, realizzato a pastello su carta nel 1978 (in prestito da un collezionista privato) è abbinato un brano della prefazione di Attilio Bertolucci al catalogo della mostra alla Galleria d’Arte Bambaia di Busto Arsizio dell’anno seguente. Ne traggo solo due righe: “Questi ibischi che l’alato pastello di Guccione ci presenta in varie posizioni entro spazi di un vergine e vivace giorno mediterraneo, vanno intesi al femminile”.
Le fonti da cui sono prese le citazioni non sono indicate nelle didascalie in mostra, ma sono esplicitate nel bel catalogo, strumento indispensabile per approfondire i numerosi temi proposti e seguire i già citati fittissimi intrecci tra gli artisti e le opere.
“L’ombra secolare di un’icona di Bisanzio accompagna la ricerca di un’elementare verità pittorica” scrive Francesco Biamonti nel testo Un monaco della luce selezionato per accompagnare la Composizione CV/2a di Enzo Maiolino.
Nei testi non è raro imbattersi in altre citazioni, in una sorta di mise en abyme o labirinto entro cui perdersi con piacere. Lo stesso Biamonti, per esempio, a proposito di un olio su tela di Pierluigi Lavagnino riporta due versi di Camillo Sbarbaro, mentre Dante Isella fa ricorso a Montale per presentare Imbarco di Franco Francese e Giorgio Orelli al De rerum natura di Lucrezio per commentare Caos di Italo Valenti. Nelle teche del salone, tra i vari documenti e libri esposti, compare anche la “Strenna per gli amici” Tre episodi lucreziani di Orelli con sei litografie di Valenti (Milano 1991).
Giovanni Testori scrive del proprio ritratto fattogli – a olio, carboncino e acrilico su tela – da Varlin (al secolo Willy Guggenheim) nel 1973:
Da qualche tempo Varlin mi “tampina” perché vada su, a posare davanti a lui, quanto più mi è possibile. Per convincermi, ogni tanto mormora; “Avec une tête comme la vôtre, on ne s’arreterait jamais…”. La mia testa? E va bene: la mia testa. Ma io mi son visti crivellare gli occhi due, tre, quattro, cinque, sei, sette volte, così, d’un colpo, come in un affondo di spada; me li son visti crivellare e trasportare, tac, tac, nel mezzo della “facciazza” fregiata più che dipinta o dipinta più che sfregiata, ovvero tutte e due le cose nello stesso precisissimo istante.
I testi sono presi da riviste, cataloghi, quotidiani. Apparve sul Corriere della Sera del 29 aprile 1992 l’articolo di Testori intitolato Disperata umanità dell’ultimo maledetto, scelto a corredare, anzi per dialogare con una delle opere più belle tra quelle in mostra: Study for Portrait III (After the Life Mask of William Blake) di Francis Bacon del 1955.
Minori nel numero ma pari per valore e bellezza le sculture comprese nel percorso. Cito almeno i nomi di Leoncillo Leonardi, Fausto Melotti e i bronzi di Luigi Broggini: Ballerina ha un testo di Vittorio Sereni, mentre Cavallo è commentato da Dante Isella: “Un modellare a punta di fioretto, in un fuoco d’artifizio di affondi e di stoccate portate a segno”.
E chi ha scritto questa recensione non può che sentirsi piccino davanti a cotali critici.