La mostra “Machu Picchu e gli Imperi d’oro del Perù”, promossa dal Comune di Milano e realizzata da World Heritage Exhibitions France e 24 Ore Cultura, in collaborazione con il Ministero della Cultura del Perù, e allestita in modo eccellente presso il MUDEC Museo delle Culture ci consente di incontrare la più grande fra le civiltà precolombiane, quella degli Inca, e di conoscerla attraverso un cospicuo numero di manufatti di ogni genere (fra i quali ceramiche, terrecotte, tessuti e monili in argento e oro) rinvenuti nel celebre sito archeologico di Machu Picchu.
Perno centrale del percorso espositivo – la mostra è curata da Ulla Holmquist e Carole Fraresso – è il rapporto dell’uomo con la natura e l’equilibrio che si instaura fra essi: a differenza della visone leopardiana di una natura matrigna, e di quella capitalista di una natura da piegare alle logiche delle economie di scala e del profitto, gli Inca vivevano l’interazione con la madre terra come uno scambio rispettoso dal quale tutti potessero trarre beneficio. Ciò è comprensibile vedendo le rigogliose e sterminate foreste che circondano la cittadella di Machu Picchu, polo fecondo di questa civiltà. Un insegnamento importante che non viene colto in quest’epoca attuale di incosciente e autolesionista sfruttamento dell’ambiente da parte dell’uomo, come testimonia il fallimento della recente COP27.
Il culto della fertilità
Il tema primario, come già riscontrato in molte altre società agricole dell’antichità, è quello della fertilità del terreno, fertilità che porta benessere, e che lega l’uomo al proprio territorio. Avevo percepito la potenza di questo tema visitando anni fa la mostra “Sotto il cielo di Nut” al Museo Archeologico di Milano, che esaminava la stretta dipendenza che gli antichi Egizi avevano con il fiume Nilo, con il ciclo delle stagioni, e con gli Dei che regolavano le esondazioni e l’alternarsi dei mesi.
Tuttavia, a differenza della civiltà mediterranea, presso gli Inca la fertilità non veniva solo invocata ma, per certi versi, anche provocata attraverso l’offerta di fluidi corporei, quelli specifici della riproduzione.
Tutto ciò risulta evidente interpretando le colorate e colorite decorazioni presenti sui numerosi vasi in ceramica e terracotta, finemente istoriati con immagini che, non conoscendo gli Inca la scrittura, servivano a illustrare il profondo legame fra la sessualità, la riproduzione e la messe.
Una società, quindi, dove l’umano non è centro dell’Universo, bensì elemento complementare di un insieme armonioso, allo stesso livello e con pari dignità di piante e animali. Anzi, attraverso gli animali l’umano raggiunge l’immanente.
È ciò che apprendiamo incontrando il mito di Ai Apaec, un supereroe ante litteram che, mediante l’interazione con il giaguaro, l’aquila e il serpente, ne acquisisce i poteri che gli permetteranno di combattere i nemici, inoltrarsi nell’oltretomba e lì acquisire una natura spirituale che gli consentirà di ascendere al cielo per incontrare la divinità.
Analogie transoceaniche
Concetti, questi, già presenti in altre culture (dalla mitologia omerica a quella già citata del mondo egizio) che, distanti da quelle degli Inca e separate da un Oceano, è improbabile che abbiano influenzato le credenze di questo popolo andino, a meno di rimettere in discussione tutta la storia delle esplorazioni e delle scoperte di nuovi continenti.
Eppure, potenti analogie si riscontrano; una su tutte: durante i combattimenti sacrificali in onore del Dio (“Atahualpa, o qualche altro Dio”, come direbbe Paolo Conte), il guerriero sconfitto viene brutalmente sgozzato, e il suo sangue raccolto in un calice offerto successivamente in dono alla Divinità. Come non riscontrare, qui, una palese coincidenza fra il calice pieno di sangue inca, e il Sacro Graal contenente il sangue di Cristo che egli offre ai discepoli durante la cena del Venerdì Santo? Domanda da inoltrare a teologi e antropologi.
Tuttavia le analogie non finiscono qui. In una sala successiva, sono esposti gli sfarzosi paramenti guerreschi dei membri dell’élite di Machu Picchu, élite i cui soli appartenenti avevano la facoltà di raggiungere la divinità come Ai Apaec (il mondo, si sa, è sempre stato diviso in classi, ben prima di Karl Marx). Ebbene, l’armatura esposta in una teca è identica in tutto e per tutto a quella dei samurai giapponesi. E anche in questo caso un Oceano separa il Giappone dal Perù.
Affascinato da questo enigma, il visitatore ultimerà la propria visita approdando alla stanza finale dove troneggia una gigantografia, catturata da un drone, del sito archeologico di Machu Picchu, che nella lingua quechua significa Vecchia montagna. Dall’alto sono visibili, benché ancora nascoste dal terreno che le ricopre, molte parti della città ancora non riportate alla luce dagli archeologi.
La fitta ed estesa vegetazione che circonda fino ad appropriarsene il sito, visitato ogni anno da più di un milione di appassionati, sembra sottolineare una volta di più l’unione feconda che questa civiltà ha stretto con l’ambiente circostante.
Simone Cozzi
Didascalia:
Copricapo frontale con felini e condor
Foglia d’oro, 18 carati
Cultura Moche (100 – 800 d.C.)
Costa settentrionale
Museo Larco, Lima, Perù
Machu Picchu e gli Imperi d’oro del Perù
Informazioni sulla mostraDove
MUDEC Museo delle CultureVia Tortona 56, Milano
Quando
Dall’8 ottobre 2022 al 19 febbraio 2023Orari e prezzi
Orari: Lunedì 14.30 – 19.30Martedì, mercoledì, venerdì e domenica 9.30 – 19.30
Giovedì e sabato 9.30 – 22.30
La biglietteria chiude un’ora prima (ultimo ingresso)
Per le aperture straordinarie consultare il sito ufficiale
Biglietti: intero 17/16,50 €; ridotto 14 €