Per raccontare “Koh-i-Nur” di William Dalrymple e Antita Anand, pubblicato da Adelphi con l’impeccabile traduzione di Svevo D’Onofrio, è forse il caso di partire dalla fine, dal quesito che gli autori si pongono nelle ultime pagine. Ovvero: come fare i conti con il colonialismo? È una domanda più che mai attuale. Risuona infatti proprio in questi giorni, in giro per il mondo. Le fa eco lo stesso Dalrymple sulle pagine del quotidiano britannico The Guardian, in un articolo intitolato “Robert Clive was a vicious asset-stripper. His statue has no place on Whitehall”.
Beh, James Broun-Ramsay – più noto come Lord Dalhousie – non toccò gli abissi di abiezione di Clive, tuttavia non provò alcuno scrupolo nel perseguire la politica di dominio della Compagnia Britannica delle Indie Orientali. Si dimostrò più realista del re, anzi, più imperialista della stessa imperatrice Vittoria.

A onor del vero va però aggiunto che alla sovrana, contrariamente a quanto aveva pensato l’ingenuo John Login, non venne nemmeno in mente di pagare il diamante più ricercato del mondo quando se lo ritrovò tra le mani. E lo ebbe proprio grazie agli instancabili sforzi dell’intraprendente Dalhousie che non esitò a piegare la volontà di un bambino di dieci anni, Duleep Singh! A pagina 143 leggiamo: “Lord Dalhousie, come aveva previsto, fu ricompensato dei suoi sforzi e creato marchese. A causa sua, il Koh-i-Nur fu destinato all’Inghilterra. L’India non rivide mai più il suo gioiello. Il Punjab perse il suo re”.
Una calamita di guai
Nella sua monumentale “Storia della decadenza e caduta dell’impero romano” Edward Gibbon ha elogiato l’imperatore Antonino Pio osservando che “il suo regno è distinto dal raro vantaggio di fornire pochissimi materiali per la storia, la quale veramente non è quasi altro che il registro dei delitti, delle pazzie e delle sventure degli uomini”. Materiali in quantità ha invece prodotto, quasi fosse una calamita di calamità, la “Montagna di luce” (questo significa Koh-i-Nur in lingua farsi).
“La storia del diamante più famigerato del mondo”, per citare il sottotitolo del libro, è infatti un catalogo di torture ed efferatezze degno di un martirologio cristiano. Vendicarsi di un uomo semplicemente uccidendolo non era un’opzione neppure presa in considerazione da molti dei suoi protagonisti. Al contrario gli si poteva riempire la bocca di polvere da sparo e poi farlo saltare in aria, mentre i figli e la moglie del malcapitato andavano incontro a un destino altrettanto terribile: legati all’artiglieria e sparati dalle bocche dei cannoni.
Nella speciale classifica dei più sadici sicuramente occupa uno dei primi posti Agha Muhammad che, per far eseguire i propri ordini, “volle che i bulbi oculari dei morti gli venissero portati nelle ceste e fossero riversati al suolo”. Smise di contarli quando arrivò a ventimila.
La scena ricorda quella simile raccontata da Curzio Malaparte a proposito di Ante Pavelić. Se vi può consolare, Agha Muhammad verrà assassinato da due suoi servitori (Pavelić morì in esilio a Madrid nel 1959, per le conseguenze delle ferite riportate nell’attentato che aveva subito due anni prima, quand’era in Argentina).
Di mano in mano
Quasi ogni pagina di “Koh-i-Nur” è un mix di devastazioni e sfarzo, lusso e macerie, raffinatezze e puro sadismo, scintillio di luce e fiumi di sangue. Tra brame inesauste e dettagli raccapriccianti, come questo: “nel 1772, quando Ahmad Shah mangiava, dalla parte superiore del suo naso putrefatto i vermi gli cadevano in bocca e nel piatto”.
Non mancano i momenti di disattenzione che rischiano di essere fatali, come la sbadataggine di John Lawrence che “aggiunge una nuova sfaccettatura alla leggenda”. Qualcuno, peraltro, si trovò per le mani questo tesoro il cui valore – è stato calcolato – era pari alla somma sufficiente per sfamare la popolazione del mondo intero per due giorni e mezzo (ai tempi, non oggi che superiamo i 7 miliardi…).
La storia del Koh-i-Nur, ricostruita anche grazie a una fonte afghana mai tradotta prima, è rappresentata in due pannelli: “Il gioiello sul trono” e “Il gioiello sulla corona”. Nel mentre si formano e si sfaldano gli imperi che fanno da quinta alle sue vicende, il diamante non cessa di passare di mano in mano, da una testa regale all’altra (o da un braccio all’altro, perché ciascuno dei possessori aveva le proprie preferenze, così come i gusti dei Persiani erano diversi da quelli degli Indiani).
Dopo un’apertura teatrale che porta il lettore in medias res, in uno dei momenti decisivi della turbolenta storia del diamante, il filo del racconto riprende da capo, dalle origini avvolte nelle nebbie del mistero, per poi svolgersi secondo un ordine cronologico che ripercorre le vicende del gioiello.
L’apparato iconografico non poteva che essere lussuoso, un vero piacere per gli occhi. Nella figura 18 che rappresenta Ranjit Singh a dorso d’elefante mentre attraversa i bazar di Lahore compare anche un monaco che indossa la mascherina sulla bocca!
I fedeli lettori di Dalrymple ritrovano in questo libro la sua abilità di affabulatore, capace di condensare una storia straordinaria in una pagina, come quella dedicata al “singolare medico e filosofo naturale portoghese Garcia da Orta (1501 – 1568)” che in realtà era un ebreo sefardita di nome Avraham ben Yitzhak.
Una lunga scia di sangue
Impossibile anche solo riassumere per sommi capi le intricate e intriganti vicende del Koh-i-Nur. Le scoprirete con diletto – il piacere lucreziano di chi vede la nave in tempesta al riparo della terra ferma – passando in rassegna una galleria di ritratti straordinari, di ascese spettacolari e cadute altrettanto roboanti.
Da Babur, fondatore della dinastia Moghul, a Shah Jahan, alla cui morte prese il potere il figlio Dara Shikoh, salvo poi venir ucciso da un fratello. Anche Nader Shah fa una brutta fine. Shah Zaman nasconde i gioielli nella sua cella prima di essere accecato. Lo vendicherà il fratello minore Shah Shuja che poi consegnerà il Koh-i-Nur a Ranjit Singh…
“Nei quattro anni successivi alla morte di Ranjit Singh il Punjab aveva perso tre maharaja, due principi ereditari, una regina madre e parecchi altri nobili. Nel dicembre del 1843 l’ultimo uomo rimasto non era neppure un uomo, ma un gracile bambino con gli occhi di cerbiatto di nome Duleep Singh”.
Ci volle quasi un anno per uccidere col veleno Kharak Singh: davvero un “lento omicidio”. Alla sua vedova, Chand Kaur, non andò meglio: venne uccisa dalle sue stesse inservienti a colpi di mattone mentre le pettinavano i capelli. Sher Singh, invece, fu ammazzato “da due cugini fidati” (!). Un’atmosfera scesipiriana alla “Riccardo III” è quella che avvolge l’uccisione di Nader Shah: “Dov’è la mia spada? Portatemi la mia spada!”.
Alla storia del Koh-i-Nur si intrecciano le vicende di altri celebri gioielli, altrettanto belli e famigerati, come il Darya-i-Nur (ora al sicuro in un caveau della banca nazionale di Teheran), il Grande Diamante Moghul, per il quale il conte russo Orlov, amante di Caterina la Grande, farà una brutta fine (il gioiello ora è al Cremlino) e l’Occhio della Huri, il rubino di Tamerlano che per lungo tempo ha messo in ombra il “nostro” diamante.
Il Koh-i-Nur a Londra
Il libro è anche una storia di sorpassi, cambi di gusto e di mode. In filigrana si legge spesso la reciproca infatuazione tra Oriente e Occidente. Ne sarà vittima anche Duleep Singh che, arrivato in Inghilterra, deciderà di convertirsi al Cristianesimo. Davvero triste la sua vicenda che si conclude nel 1893 con la sua morte in miseria in un hotel di Parigi.
Quarant’anni prima, nel 1851, c’era stata la grande esposizione di Londra, nella quale aveva giocato un ruolo di primo piano il principe consorte Alberto (ma anche il marketing e la stampa avevano fatto la loro parte!).
Per soddisfare meglio il gusto occidentale il diamante era stato sottoposto a un drastico ridimensionamento che aveva finito per ridurlo di quasi la metà: da 190,3 carati metrici era sceso a 93! Il taglio inaugurale lo diede niente meno che Lord Wellington, il vincitore di Waterloo.
Più e più volte, anche in tempi recenti, la Gran Bretagna si è vista recapitare richieste di restituire il diamante. Ma se un giorno una di esse dovesse mai essere presa veramente sul serio, chi avrebbe più diritto di conservarlo? L’India, il Pakistan, l’Afghanistan?
L’attuale sovrana, Elisabetta II, non ha mai voluto indossare il Koh-i-Nur. Il diamante era però ben in vista nella corona deposta sul feretro della Regina Madre durante il suo funerale, nel 2002. Con buona pace di Duleep Singh.
Saul Stucchi
In copertina: Ritratto di Ahmad Shah Durrani (1722-1772)
Universal History Archive/UIG/Bridgeman Images
William Dalrymple e Anita Anand
Koh-i-Nur
La storia del diamante più famigerato del mondo
Traduzione di Svevo D’Onofrio
La collana dei casi
Adelphi
2020, 253 pagine
22 €